C’è ancora domani: la recensione


FREDERIC PASCALI
- Il cinema della realtà, come recitava il titolo di un bel documentario del 1969, a firma di Gianni Amico, torna ciclicamente sul grande schermo, quasi che fosse una necessità, un’imprescindibile stimmate autoriale da mostrare orgogliosamente. Avvolta in questo richiamo, seppur forse solo di cornice, si ritrova anche l’opera di Paola Cortellesi, alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa. Costruita con un cast di assoluto rilievo, la storia si concentra sulle sfaccettature che accompagnano la messa a fuoco del ruolo della donna, e del suo percorso di emancipazione, nell’Italia dell’immediata fine del Secondo Conflitto Mondiale. 

Descritta in una fotografia mortificata da un bianco e nero troppo intriso d’artificio, la sceneggiatura, a cura della stessa regista, di Furio Andreotti e Giulia Calenda, si sofferma sulla vicenda di una famiglia romana alle prese con le asprezze di una vita segnata dalla guerra appena conclusa. Delia, brillantemente interpretata dalla stessa Paola Cortellesi, è il classico angelo del focolare che cerca di far quadrare i conti in un contesto di difficile estrazione popolare. Tormentata dagli sbalzi di umore, e dalle violenze, del marito Ivano, un ottimo Valerio Mastandraea, mai più ripresosi dall’aver servito nell’esercito in entrambe le guerre mondiali, deve badare anche ai due figli piccoli e alla loro sorella maggiore Marcella, candidata a sposarsi per amore, con l’auspicio di un cambio di passo nella scala sociale. 

L’anziano suocero, di salute malferma e con un passato dalla fedina penale poco limpida, completa il novero di corvée quotidiane da assolvere. Fino al momento dell’arrivo di una lettera misteriosa che restituisce la speranza e cambia il punto di vista sul futuro. Più commedia che dramma, “C’è ancora domani” agisce in un ambito spiccatamente teatrale, con un canovaccio che ricorda molto alcuni temi cari a Eduardo, sostenendosi sulla bravura degli interpreti e sul loro amalgama. Pur apprezzandone l’intento, lascia un po’ perplessi la rivendicazione storica del messaggio, frutto di una ricostruzione simbolica affetta da una sintesi troppo parziale. Non può, tuttavia, mancare la lode per le interpretazioni di Emanuela Fanelli, Marisa, e Giorgio Colangeli, Ottorino.