Quale integrazione?


SANTA FIZZAROTTI SELVAGGI 
- Alcune riflessioni in occasione di un incontro con la giornalista Carmen Lasorella per la presentazione del suo primo romanzo “ Vera e gli schiavi del terzo millennio” Marietti 1820, presso La Madonnina Life § Care, organizzata dall'Associazione Crocerossine d'Italia Onlus sezione di Bari.

L’intercultura va oltre la conoscenza del diverso e il rispetto che può derivare da questa nuova esperienza. Per la formula “dialogo interculturale” convenzionale bisognerebbe distinguere due dimensioni come afferma l’antropologa Annamaria Rivera: “-il dialogo interculturale fra maggioranza e minoranze (in primis quelle di origine immigrata) in seno a uno spazio nazionale; -il dialogo interculturale riguardante popolazioni e culture situate in un ambito multi-nazionale, come quello euro-mediterraneo.” (In Mediterraneo tra Cipride ed Ares, tra il sogno e la speranza, a cura di Santa Fizzarotti Selvaggi, Fides Edizioni , pubblicazione di riferimento per il presente testo).

Secondo il Consiglio d’Europa (Libro bianco, 2008) il dialogo interculturale è “uno scambio di punti di vista, aperto e rispettoso, tra individui e gruppi appartenenti a culture differenti, che conduce a una comprensione più approfondita della percezione dell’altro”. Ma necessita chiarire alcuni punti: Le culture non sono entità monolitiche e si fondano su sistemi simbolici, sempre soggetti a ibridazioni per cui le collettività umane sono eterogenee; E come afferma Annamaria Rivera “tutte le culture sono attraversate da fratture di potere (per es. fra ricchi e poveri, uomini e donne) e, di conseguenza, da conflitti e opposizioni. Tutte le culture sono in qualche misura “multiculturali”, fatte di sedimenti provenienti da diversi tempi, luoghi e popolazioni. Per esempio, il cristianesimo -elemento significativo nella costruzione dell’identità europea-, ha radici nel Vicino Oriente, un’area abitata da popolazioni prevalentemente semitiche.”Noi tutti siamo il risultato di pluralità e tale consapevolezza potrebbe stemperare i termini oppositivi: noi/loro, autoctoni/migranti, cristiani/musulmani e tanto altro…… Il dialogo e la reciprocità oltre che la condivisione sono possibili se diminuisce l’asimmetria di potere e la disuguaglianza sociale fra gli individui e i loro gruppi di appartenenza. 

Inutile nascondere che il rapporto fra la maggioranza e le minoranze di origine immigrata è asimmetrico, sia sul piano economico-sociale che su quello giuridico e di status. Il cosiddetto “dialogo interculturale” è astratto se non si riflette sui concreti rapporti economici, sociali, politici, giuridici. Per non dire poi della visione stereotipata degli “altri”, dalla loro discriminazione, stigmatizzazione ed esclusione dallo spazio pubblico. “ Insomma, la vera convivenza è quella che si realizza attraverso il mutuo riconoscimento fra eguali e diversi, non chiedendo agli altri di omologarsi a noi, ma costruendo le condizioni -economiche, sociali, giuridiche, politiche, culturali- perché sia possibile negoziare e avviare un dialogo e uno scambio fra pari. Si tratta di conciliare il riconoscimento della pluralità dei mondi sociali e culturali con i principi dell’uguaglianza e del rispetto dei diritti umani, e con una concezione inclusiva della cittadinanza.” ( A Rivera, op.cit)) Il dialogo interculturale non può fare a meno di un modo di procedere riflessivo: cioè dell’empatia e del decentramento, vale a dire dell’impegno a mettersi reciprocamente dal punto di vista dell’altro, per potere scambiare e negoziare significati. Tutto ciò ha bisogno di una preliminare operazione di relativizzazione del proprio mondo culturale, del proprio punto di vista, dei cliché e dei pregiudizi che ne discendonoL’identità differente dalla nostra va riconosciuta. Il che può accadere a condizione che si sia consapevoli della propria identità, al di là di rigide frontiere identitarie e/o rinunce. 

D’altra parte, tutte le Dichiarazioni dei Diritti dell’Uomo, come hanno notato diversi esperti, sottolineano l’uguaglianza tra i diritti fondamentali della persona umana, «indipendentemente da tutto ciò che può porre la natura stessa». In realtà ognuno di noi è diverso dall’altro, eppure profondamente simile. Meraviglioso è che da una «sola natura umana» siano state generate culture differenti che evidentemente riflettono il volto dell’umanità. Si tratta in realtà di costruire una cultura della transizione, della riflessione permanente sulla nostra stessa mutazione. Costruire luoghi creativi di condivisione è necessario. Una condivisione che tenga conto della Memoria che non deve subire soluzioni di continuità, in modo che la perdita non sia irrecuperabile e che la lacerazione della stessa perdita sia in qualche modo rimarginabile. Noi siamo la nostra memoria: è la Memoria che in qualche modo ci domina.Nel co-creare, nel far nascere, nel cercare le radici e la co-identità è possibile confondere e fondere il sé con l’Altro da sé senza il terrore dell’annientamento del Sé. La creatività e con essa la conoscenza, in una realtà che tende a omologarsi anche nell’eccesso della violenza, facilita la interconnessione delle relazioni in un discorso intersoggettivo in cui l’Uno si ritrova parte dell’Altro.Questo diverso percorso favorisce la prospettiva trans-culturale scevra da pregiudizi. La conoscenza, che può essere condivisa attraverso i processi trasformativi propri della creatività, attiva un sistema articolato in cui tutti operano all’interno della reciprocità e nel rispetto delle identità di ciascuno. 

Dunque, i linguaggi espressivi, le terze terre, che si dispiegano in una dimensione di sospensione del giudizio, dello spazio e del tempo «possono aprire i canali di cooperazione internazionale, potenziando i percorsi formativi senza distruggere codici e culture», bensì divenendo fonte di conoscenza per tutti, al di là di orizzonti e confini. In tal senso l’aspetto speculare di riflessività e proiezione di parti di sé nello sguardo dell’Altro si trasforma in possibilità di riconoscere l’Altro.In tal senso la parola, i suoni, le immagini espongono il loro carattere di generatività, di apertura alla trasformazione all’interno della quale la generosità (cfr. Gutmann), propria dell’atto volontaristico, a sua volta si fa espressione della massima generatività di modelli e comportamenti: di una nuova coscienza. Nasce e si struttura una transarmonia in grado di percepire nuove e suggestive melodie. Coscienza quale conoscenza di sé attraverso l’Altro, all’interno di una foresta di metafore e simboli, intrecci tra le varie molteplici identità che in noi comunque dimorano sedimentate nella memoria genetica, implicita, nelle tracce mnestiche. I mediatori interculturali e i cosiddetti tutori etnici dovrebbero fondare i loro interventi su tale profonda convinzione e formazione. Ora, possiamo forse affermare che il travaglio più doloroso per l’essere umano è proprio quello di riconoscere nel percorso identitario la sua unicità che si fa creativa nel confronto con il simile se pur diverso (cfr. J. B. Pontalis). In tal senso l’empatia ci consente di sentirci al posto di chi soffre e al medesimo tempo di poter trovare insieme all’Altro gli strumenti che possano in qualche modo sostenere e contenere le angosce, le paure, le ansie del futuro. Ma nelle “terze terre”, come da di chi scrive definite, ciascuno può dare e ricevere in una dinamica di continuità di sé nella storia. Si tratta dello svelamento di sé insieme all’Altro. Il trauma psichico rappresenta una ferita per la mente: qualcosa di esterno la invade e ne viola i confini, causando spesso uno stato di disperazione. Non dimentichiamo che è il trauma, quale rottura dell’esperienza quotidiana e della memoria, a rappresentare il dramma dei profughi e degli immigrati, come affermano anche molti studiosi.

Si tratta di una ferita che riapre altre piaghe, talvolta invisibili cicatrici che ricominciano a sanguinare al primo soffio di vento e che pertanto lasciano emergere improvvisamente il perturbante, il rimosso non rappresentabile dalla nostra mente che invece ha bisogno di controllare eventi e fatti all’interno dell’universo simbolico umano. Una ferita che genera crisi di panico senza direzioni. Le emozioni difensivamente si congelano e tale condizione nel tempo può determinare gravi sofferenze. Vi sono anche traumi irrisolvibili! Il compito delle istituzioni e associazioni è anche quello di facilitare il ricongiungimento delle famiglie, ricomporre gli affetti, aiutare l’Altro nell’elaborazione delle perdite e dei lutti. Non è cosa facile. Vi sembra di poter essere efficaci soltanto qualora riusciste a trovare un alloggio? Non è sufficiente, perché nessun luogo è come casa propria, fosse pure l’ultima delle capanne del mondo. Si tratta di facilitare la costruzione di una “casa psichica”, l’idea e il sentimento di una “ casa comune “ all’interno della quale tutti gli esseri umani hanno diritto di cittadinanza nella loro ineludibile dignità di Persona.. I geni ci rendono uguali se pur nelle infinite ricombinazioni, l’ambiente ci differenzia, gli strumenti della creatività ci fanno evolvere insieme all’Altro nella condivisione di esperienze e affetti. Ci permettono di conoscere sé e l’Altro. 

E sono proprio questi strumenti che possono tracciare nuovi sentieri nell’ambito di un unico straordinario linguaggio, senza l’orrore del vuoto che genera il panico mortale, gesti insani e, in assoluto, al dominio dell’Uno sull’Altro. Sono questi strumenti che vanificano la perdita della propria Identità. L’irrappresentabilità del trauma, ricordando le istanze delle Scuole Psicoanalitiche, produce angoscia e si ha la sensazione di sopravvivere e non già di vivere. L’essere umano ha bisogno di tempo prima di poter convivere con le tracce indelebili degli orrori subiti e vissuti. La violenza crea una inarrestabile catena di odio e soprattutto le vittime finiscono per identificarsi inconsapevolmente con l’aggressore, contribuendo al comportamento violento di massa. Per noi esseri umani fondamentale è il controllo della propria vita. Che fare allora per facilitare il contenimento dell’angoscia e rendere rappresentabile l’irrappresentabile? La traumatizzazione estrema, come già detto, implica sempre una perdita, ma possiamo facilitare l’elaborazione della perdita. 

Profughi e rifugiati spesso diventano persone «in lutto perenne» (Volkan, 2001): «non sono in grado di rinunciare alla speranza del ritorno o rendersi conto che quelli vicini a loro sono veramente morti e che le prospettive del futuro sono davvero cambiate». Rimane, però, il pensiero magico di ritrovare tutto ciò che è stato. In tal modo spesso non si è capaci né di elaborare il lutto, né le esperienze collegate con il trauma e con la perdita. Si crea una condizione di «animazione sospesa» in attesa che «un giorno o l’altro» tutto tornerà come era stato. Attraverso gli strumenti della creatività possiamo facilitare proprio le elaborazioni delle perdite e dei traumi. Nel villaggio globale assistiamo alla disintegrazione e all’azzeramento della creatività, che è invece uno straordinario strumento di integrazione e trasformazione che può avvalersi dell’azione volontaristica. Troppo spesso oggi assorbiamo messaggi mediatici che ci abituano anche alla violenza femminile: donne che combattono e uccidono. Non solo Oggetto di violenza ma anche Soggetto di violenza. Non ci sono più parole in grado di costruire il discorso e il pensiero. D’altra parte l’orrore al quale spesso assistiamo non è forse il risultato della tragedia di un mondo privo di parola, incapace di comunicare con sé e con l’Altro? Di un mondo che a volte si illude di dialogare all’interno di un sistema virtuale , che in alcuni casi diviene quasi una protesi comunicativa.I freni inibitori per molti si sono quasi vanificati e i sensi si sono anestetizzati. E allora al di là di “intelligenze più o meno artificiali, che non possono e non devono sostituirsi all’essere umano, al di là dei tablet e di tutta la tecnologia avanzata compresa la robotica, dalle ferite dell’anima, dal ritrovare parole ed emozioni perdute può nascere un Uomo Nuovo.

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