Vannacci e il diritto al moto di repulsione

ROBERTO BERLOCO - Continua a tener banco il caso d’un alto ufficiale dell’Esercito italiano che, nella seconda parte di quest’Estate, si è lanciato nel caos dell’opinione pubblica nazionale con affermazioni coraggiosamente contro corrente, tutte menate dentro un romanzo di sua firma e dal titolo emblematico, ma in linea coi contenuti: “Il mondo al contrario”.

Il militare in questione s’appella Roberto Vannacci. Il grado quello di Generale nel Corpo dei Paracadutisti. Il Reparto di provenienza quello del Reggimento d’Assalto “Col Moschin”, il più in fama d’ardimento tra le formazioni militari speciali in dote allo Stato italiano.

Dietro di sé, una carriera assolutamente d’eccezione e senza macchia, proprio come si conviene a chi, nella professione, versa cuore, testa e corpo. Studi presso l’Accademia di Modena e alla Scuola di Applicazione di Torino, Vannacci vanta un percorso universitario culminato in ben tre titoli accademici e un’intensa esperienza operativa in vari teatri bellici, dove l’Italia sia stata impegnata o risultasse coinvolta la NATO.

Fino alla pubblicazione dell’opera, il suo non era un volto sconosciuto all’opinione pubblica, solo non era così conosciuto come, ormai, lo è oggi. Erano stati resoconti affioranti da telegiornali o documentari a lasciar appena emergere quella sua figura, sempre rigidamente contenuta dal senso di responsabilità connesso alle stellette, oppure dalla delicatezza e dalla discrezione imposte dalle missioni all’estero.

Ora, va da sé che pure un uomo d’azione che trascorra la parte più vitale della propria esistenza ad obbedire e, per obbedire, a comandare, prima o poi arrivi a formarsi un pensiero sulla società che lo circonda, a maggior ragione se, poi, questa è percorsa, sempre più rapidamente, da trasformazioni che vanno ad incidere, fin nella radice, su quei valori condivisi che sono i pilastri più solidi d’una qualunque comunità civile.

Quel pensiero, ovviamente, è andato maturando nel tempo, raggiungendo, infine, soggettiva perfezione e una soglia critica, vale a dire quel momento oltre il quale esso abbisogni solo d’esser comunicato, reso comune, come per trovar sfogo, casomai incontrasse la sponda di coscienze affini che possano compiacersene, o, almeno, rispettarne la logica essenza. Una sorta di esigenza fisiologica, se così può dirsi, insopprimibile alla maniera di molte altre tipicamente umane.

Se è vero questo e questo è accaduto, non può esservi motivo di meraviglia non solamente al dato che quel pensiero sia emerso, ma pure a quell’altro, che abbia preso persino la forma d’un libro ben nutrito di pagine, a conferma ulteriore che, ormai, fosse giunta abbondante l’ora che il fiume superasse il punto di piena e straripasse tutt’attorno.

Ancora. Che non si possa parlare di un’operazione editoriale premeditata a tavolino, non vi sono dubbi. E perché il Generale, di proposito, ha evitato di bussare alla porta delle tante Case editrici operanti sul territorio nazionale? Ecco qui l’unica domanda che non si è posta più di tanto la massa degli opinionisti alla moda, intellettuali allineati al pensiero dominante, conduttori di arene televisive e radiofoniche, nonché quegli altri vari che, a vario titolo, ne hanno ampiamente discusso nei loro canali quasi sempre sulla cresta dell’onda.

E non ponendosela, non l’ha neppure posta al protagonista di quel che, nel deserto di novità d’idee e di uomini nuovi di cui soffre cronicamente il nostro Paese, ha finito per sfociare naturalmente in un fenomeno di portata colossale, proprio come il rumore che produce un sassolino quando viene lanciato in una grotta sotterranea. Il vuoto delle coscienze amplifica a suono assordante ogni minuscola nota che si trovi a scivolare tra le proprie pareti.

Plausibilmente, ma come, d’altronde, si ricava dalle sue stesse parole da nessuno sollecitate, la risposta è nel fatto che, tra le aspettative reali del Vannacci, non c’era di raggiungere il mondo intero, quello sempre più “al contrario”, ma, all’opposto, una ristretta cerchia di “amici” che si sarebbero riconosciuti nel suo di mondo, fieramente arroccato su quella identità culturale e su quei valori tradizionali in cui l’alto graduato italiano si era sempre riflesso e, a tutt’oggi, si riflette. Probabilmente senza averne piena consapevolezza, anche una maniera per dirsi: quanti siamo, contiamoci! E quale miglior strumento che un’autopubblicazione in sordina, diretta solo a chi sarebbe stato informato della sua uscita e che, a sua volta, accalorato dall’entusiasmo provocato dalla sua lettura, avrebbe potuto coinvolgere le proprie cerchie di conoscenti più vicini ai concetti lì espressi?

Fin dai primi battiti del suo pubblico vigore, il testo non è passato all’indifferenza - bisogna precisare, assolutamente grazie ad Aldo Cazzullo e a Matteo Pucciarelli, i primi a sollevare dal fondale del mare dell’anonimato quella che, ai loro occhi, doveva essere subito parsa una rara perla che, assolutamente, non poteva mancare nel loro scrigno di colpi giornalistici - e non avrebbe potuto perché, in questo caso, ad andare contro il politicamente corretto non è una delle voci più o meno anonime che affollano la Rete, quasi tutte con la pretesa che più s’urli e più s’ottenga, più la si duri e più la si vinca, ma un uomo che è un servitore qualificato dello Stato, con una notevole quantità di meriti oggettivi in faretra e una maturità morale in linea coi parametri del ruolo. Insomma, non proprio uno qualunque, ma uno con un peso specifico autorevole all’interno della società italiana. Ed è questo particolare che ha reso il messaggio veramente eclatante, corrispondendo, così, ad uno di quei fenomeni editoriali dove sia l’autore a promuovere il testo e non il contrario.

Ma cos’è che ha tanto attratto lo scandalo generale al punto da imbastire una delle più poderose forche mediatiche che il Paese abbia conosciuto durante quest’anno? Al punto da mettere in ombra, almeno fino alle nuove da Gaza, le stesse notizie dal fronte ucraino o i tentativi del Covid di rialzare la testa attraverso varianti nuove di zecca? Quali i passaggi del libro additati a crimine certo? Quali le parole che hanno smosso perfino membri del Governo e del Parlamento ad intervenire con una prontezza che non si riconosceva dai tempi dell’Indice fascista?

Tutto è racchiuso in poche, precise frasi.

“Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione!”.

Questa la prima e quella che, in certo modo, fa da sfondo all’intero corpo del messaggio. Vannacci annuncia l’anomalia di una “minoranza” che ha il potere d’imporsi ad una “maggioranza” in grazia delle “trame” di quella che definisce una “lobby gay internazionale”. Che vi sia o no qualcosa di vero in quest’analisi, un fatto è certo: ad un certo punto della storia nazionale, attraverso una sensibilità mutata in ambito più ampio, almeno europeo, si è assistito ad una decisa virata legislativa che ha fatto dell’impensabile sino al finire del secolo scorso, ciò che di più ovvio e naturale s’attendesse. Come tutti i cambiamenti radicali nel Bel Paese, anche questo, nell’approccio al tema della sessualità e dell’accoglimento di visioni di essa differenti dai canoni della tradizione, è provenuto dall’esterno.

Comunque, se si rimane all’ambito dei fatti, l’accusa di omofobia non regge, considerando che, agli “ordini” del Vannacci, vi sono stati anche subordinati omosessuali, tutti da lui sempre rispettati e con nessuno, tra loro, ch’abbia mai avuto motivo di lamentarsi. Ma c’è di più: sta nelle corde dei suoi stessi risultati di servizio e dello spirito che ne emerge, che, da ogni missione cui si sia dedicato, ne sia emersa la fisionomia di un servitore dello Stato che abbia sempre avuto a cuore di difendere l’integrità della comunità nazionale, comprendendo, in questa, cittadini dell’uno e dell’altro sesso, come anche di uno o di un altro orientamento sessuale.

Se, invece, si passasse a quel piano di pensiero che può anche starsene in disparte mentre s’operi, senza per forza scadere nella dimensione dell’ipocrisia proprio perché è umano che si pensi mentre si agisca secondo il proprio dovere, non dovrebbe parer così difficile digerire l’idea che finisca per provare almeno un moto di repulsione un uomo innanzi cogli anni e abituato, per tutta la propria esistenza, a veder matrimoni tra uomo e donna e a credere nella normalità dell’unione tra sessi opposti, il quale, abbastanza improvvisamente, si ritrovi la scena, suggellata dalla legge, di un Carabiniere con tanto di barba e in alta uniforme che baci appassionatamente il proprio uomo, nel giorno delle loro nozze, con picchetto d’onore a contorno.

Si è parlato di “diritto all’odio”, ma che altro non sarebbe, secondo ciò che lo stesso Generale non è stato in grado di definire per via d’una sorta di sottigliezza di senso che a nessuno è interessato d’appurare, che, dunque, un umanissimo diritto alla repulsione. La stessa, per intendersi, che, con altrettanta normalità, provi un omosessuale alla vista del proprio sesso affiatarsi col sesso opposto. Un diritto che, cioè, non implica la conseguenza di una mancanza di rispetto verso certo prossimo o il venir meno del principio della tolleranza, che è uno dei fondamenti necessari di una società civile e che Vannacci mai si è sognato di mettere in dubbio.

D’altra parte, non rientra forse quella repulsione nel registro delle umane reazioni, meritevoli almeno di comprensione? A maggior ragione se, appunto, a quel suo getto d’animo, l’alto graduato vi premetta e vi faccia seguire l’ordinario rispetto che mai dovrebbe mancare di fronte a qualunque manifestazione umana che rientri nel permesso dell’ordinamento giuridico vigente.

L’altro punto è quello del rapporto tra maggioranza e minoranza, perché è continuamente alla prima che Vannacci si chiama per giustificare le proprie posizioni. Lo fa, ad esempio, in proposito alla comunità LGBTQ, che sottolinea di rispettare umanamente, ma di cui non comprende la sovraesposizione mediatica, alla maniera, sembra che voglia davvero intendere, di una sfida urlante e continuamente protesa contro chi la pensi diversamente, mentre, magari, nessuno semplicemente ci pensa, o, quanto meno, in maniera così drammatica. Insomma, come anche se l’esigenza di una difesa legittima per una precisa minoranza dal rischio di emarginazione o di ostilità da parte di un’altra minoranza, questa realmente di omofobi, finisse per tramutarsi nella diffusione sempre più intensa, tra la maggioranza della società civile, di un regime di gusti sessuali diversi da quelli che quella stessa maggioranza magari neanche riesce ad immaginare, ma, per la quale, diventa doveroso che cominci a pensarci sempre di più, o financo ad avvicinarsi per sperimentarli di persona, ché, appunto, si tratta solo d’amore e biologia, nulla di male.

“Chi può giudicare cosa non è pazzia?” - afferma Balor, il personaggio antagonista del diciottesimo episodio della prima serie televisiva “Spazio 1999”, quando il comandante Jhon Konig gli lancia quest’accusa. Già, si potrebbe echeggiare, chi può giudicare cosa sia norma e cosa non lo sia?

Va da sé che, in gioco e di fondo, vi sia l’interpretazione dei princìpi etici e morali che presiedono alla distinzione tra lecito e illecito negli umani costumi e in tutto ciò che è comune consuetudine di giudizio. Un’interpretazione che, di regola, risente dell’epoca traversata, e che, sempre di regola, dovrebbe evolvere nel senso di un sempre maggiore rispetto dell’umana dignità o di quello che passi per miglior benessere della persona, ma che, di sicuro, oggi come oggi, non coincide più a quella promanante dal Magistero della Chiesa, secondo cui, prim’ancora dell’illuminazione della fede, a dirci cosa sia ammissibile e cosa no sono appena le leggi iscritte nella Creazione. Norme alle quali, pure all’animo più semplice, è dato d’approdare con immediata certezza. Insomma, si finirebbe per aprire un altro, più corposo capitolo, quanto di preciso s’è scansato da parte di chi ha soffiato ogni possibile, ostile fiato verso il Generale.

“Se un ladro entra in casa, perché non dovrei essere autorizzato a sparargli, a trafiggerlo con qualsiasi oggetto che mi passi tra le mani?”.

Qui, il tema è quello della legittima difesa, in particolare quella abitativa, su cui si ricordano le battaglie del magistrato veneto ed ora Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Battaglie che, alla fine, sono sfociate in recenti modifiche legislative, che hanno significato un allargamento delle maglie della non punibilità. Dal 2019, la norma penale infatti recita: “chi compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere” nel proprio domicilio, “agisce sempre in stato di legittima difesa”.

Ora, se può sorprendere l’energica durezza delle parole, è un fatto che il Generale non stia aggiungendo alcunché di nuovo a ciò che, oggidì, è già possibile, fino a che, almeno, si rimanga tra le mura di casa. Possibile e di assoluto buon senso, malgrado ce ne sia voluto di sangue d’innocenti scorso fino all’intervento normativo di qualche anno fa.

“Paola Egonu, i suoi tratti non rappresentano l’italianità”.

Anche in questo caso, letta crudamente come scritta, parrebbe un’altra zappata che il militare si sia dato sui propri piedi. Pure stavolta, però, si tratta di andare oltre il primo impulso, cercando immedesimazione nell’animo di un popolo, quello italiano, millenariamente sottratto a fenomeni d’immigrazione di genti da certe latitudini africane (s’intende anche nella forma di schiavitù, com’è stato, per un esempio, per i Paesi Anglosassoni o iberici delle Americhe), ovviamente se si eccettuano le ondate dell’ultimo decennio. Perché, anche andando assai indietro nel tempo, assai prima che Roma mettesse radice nella penisola italica e glissando su epoche ancora più remote di evoluzione dei primi gruppi umani stanziati in Europa, è un dato storico che tutti i movimenti di persone culminati nella Penisola, abbiano avuto origine da altri territori europei oppure asiatici. Come pure, in epoca romana antica, il principale afflusso di schiavi, spesso liberati e divenuti cittadini sotto forma di liberti, tenesse provenienza da zone del Vecchio Continente, dalle lande asiatiche del Medio Oriente, o, infine, dalle province dell’Africa settentrionale, dove la pelle s’oscura senza annerire. Andando ancora avanti nel tempo, entrando nell’Alto Medioevo e continuando fino al Rinascimento, s’ha notizia semmai di stanziamenti di etnie nordiche, coi loro eserciti e la loro voglia di dominare. Questo per dire che, malgrado travasi non proprio infrequenti, alle popolazioni di Firenze, Venezia, Bari, Napoli o Genova, non fu dato che di fondersi o confondersi con popolazioni con tratti sempre similari. Tanto non per suggellare differenze di “razza”, ma solo per dire che l’occhio popolare “italiano” fu sempre aduso ad uno stesso, dato genere di umanità, che, poi, è il canone retto sino ai giorni d’oggi, sempre più frequentati da gente di colore, la quale, probabilmente, rappresenterà una fetta sempre più consistente e autorevole dell’Italia che verrà.

“Ritengo che nelle mie vene scorra una goccia del sangue di Enea, Romolo, Giulio Cesare, Mazzini e Garibaldi”.

Può solo far pena chi, leggendo questa frase, arrivi ad accusare il militare italiano di megalomania.

Poiché, ciò che Vannacci vuole intendere è appena che l’Italiano d’oggi è pure il frutto di una tradizione che ha radici antichissime, una maniera per rimarcare la fierezza di appartenere ad una Nazione con una propria, precisa identità spirituale e culturale.

Un ultimo punto. Anzi, un appunto. L’opera di Vannacci non è limitata a queste, poche proposizioni, che sono le più impallinate, ma pure perché mancano dello sfondo del contesto, che, almeno sino ad oggi, è stato evitato con mirata coscienza dal fior fiore della critica allineata al politicamente corretto del momento. E, questo, semplicemente, lo si consenta per esigenze di buon senso, non è corretto.

Per dirla tutta, al di là dell’esser d’accordo o no col dire di Vannacci, manca ancora una nota di chiusura, un giusto riconoscimento all’uomo, al coraggio dell’uomo, al coraggio d’aver urlato fede, ideali ed intime convinzioni ai venti contrari del regime sempre più istituzionale del nuovo pensiero. E già. Perché una libertà che si ribella, alla fine, s’è trovata.