Bari che scompare con le sue attività artigiane
VITTORIO POLITO – Nell’ultimo ultimo decennio sono scomparse migliaia di
imprese artigiane in tutte le regioni italiane e quindi la rarefazione di molti
laboratori. La crisi dell’artigianato non significa soltanto la chiusura di tante
piccole aziende ma, soprattutto, la scomparsa di numerosi mestieri che
qualificavano il nostro territorio. Il mestiere si esercitava quotidianamente a
scopo di guadagno ed escludeva sia le libere professioni che le attività di
carattere impiegatizio, commerciali e agricole. In sintesi erano tradizioni di
famiglia, che passavano di padre in figlio, oggi scomparse quasi del tutto, se
si esclude qualche rara testimonianza che sopravvive ancora oggi.
Nel 1986, Anna Sciacovelli pubblicò il volumetto “Bari che scompare” (Congedo Editore), nel quale fa una disamina dei mestieri, intitolando i vari capitoli con l’appellativo dialettale barese del mestiere a cui si riferisce, ma descrivendo in italiano lo svolgersi di ciascuna attività. Così apprendiamo che “la capère” era la donna che acconciava e pettinava, oggi sostituita dal parrucchiere, mentre “la fèmmene de le pezze vijcchie”, era la donna che comprava stracci dando in cambio catini, piatti, tegami, graticole di ferro, ecc., “u’ mulafurbece” (l’arrotino), artigiano che non aveva una sede fissa, ma si spostava per le strade, con il suo strano veicolo o con la bicicletta, dotati di mola, provvedendo dietro umile compenso ad affilare taglienti di ogni genere, “U parambrelle” (l’ombrellaio), il mestiere di colui che riparava ombrelli. Un personaggio mitico di Bari era “U chiappacane” (l’accalappiacani). Si chiamava “Faièle” (Raffaele), uomo simpatico e bonario, il cui compito era quello di accalappiare i cani randagi e per svolgere il suo lavoro era dotato di una lunga asta alla cui estremità era attaccato un collare a forma di cappio che, una volta infilato al collo dell’animale, difficilmente questi poteva svincolarsi.
Un altro interessante testo della Levante Editori di Bari: “Botteghe e bottegai nell’ottocento barese. Il Tribunale di Commercio a Bari”, di Franco Martino, fa rinascere negli ambienti caratteristici in cui viveva la popolazione barese dell’epoca, i numerosi personaggi che operavano nel territorio barese, quali bottegai, sarti, barbieri, carbonai, fabbriferrai, sensali di matrimonio, ecc.
L’attività di sartina, ad esempio, per molte giovanette di modesta famiglia rappresentava una prospettiva di lavoro unica, al punto da farle rimanere zitelle, circoscritte in ambienti limitati e chiuse ai rapporti umani. Anche per il sarto era una scelta per necessità, più che per vocazione, spesso imposta anche da fragili stati di salute.
Al barbiere toccava il titolo di “maestro”, mentre il locale ove si esercitava il mestiere si chiamava “salone”. Il barbiere, poiché simbolo dell’igiene, all’occorrenza veniva chiamato a fare da infermiere, cavadenti e, perché no, a far punture agli ammalati. La sala da barba rappresentava una sorta di punto di incontro e l’avvicendarsi degli interlocutori consentiva di effettuare una sorta di cronaca quotidiana di fatti e fatterelli, attraverso un giornale parlato. La sala si trasformava in ‘redazione’ ed era abbastanza facile individuare nel maestro il’ ‘redattore’, il più informato di tutti, che mentre utilizzava con disinvoltura il rasoio o la punta delle forbici, organizzava la “pagina della cronaca”, ricomponendo i vari pezzi degli eventi, soprattutto quello che noi chiamiamo oggi ‘gossip’. In sostanza nel salone si svolgeva un piccolo, democratico, rispettoso parlamento in cui tutte le componenti sociali avevano diritto di parola ed il maestro, che rappresentava la fonte attendibile, intervenendo di tanto in tanto, aggiustava il tiro della conversazione. Insomma assumeva la funzione di moderatore. La tradizione vuole che il barbiere avesse anche una vocazione innata per la musica, privilegiando quella operistica, forse ispirato dal più famoso Barbiere di Siviglia e poi, non vi era barbitonsore che non sapesse suonare uno strumento. Uno dei mestieri più interessanti e curiosi era rappresentato dal sensale dei matrimoni. Infatti, qualche tempo fa sposarsi non era cosa facile, dal momento che le ragazze erano ben custodite dalle loro mamme, per cui avere occasioni come quelle odierne era cosa da sogno. Infatti, a scuola non esistevano classi miste, incontrarsi con una ragazza era impresa assai difficile, bisognava ricorrere a stratagemmi per incontrare l’innamorata, non esistevano cellulari, locali notturni, discoteche, locali da ballo, pub e, cosa importante, non vi era quella libertà, che oggi si spreca. Per svariati motivi ebbe molto successo la “professione” del sensale di matrimoni. Costui era un mediatore che proponeva affari di cuore… e di patrimoni, attività oggi scomparsa.
Il sensale (o mediatore), doveva avere una qualità non comune, quella di essere riservato, discreto, doveva tener conto della suscettibilità umana in tutti i risvolti di natura psicologica ed emotiva, insomma aveva il compito di favorire il matrimonio combinato, ma senza far apparire gli interessi nascosti.
Neppure l’agente delle tasse era aggiornato, come il sensale, sulla consistenza patrimoniale di certe famiglie. Il giovedì prima del matrimonio i parenti erano invitati alla casa degli sposi per ispezionare i regali, ma soprattutto la consistenza del corredo e perché no anche la carta dotale, dalla quale si rilevava, non solo la quantità dei beni, ma anche se la disponibilità del patrimonio era dal “primo giorno” e libera da vincoli. I cacciatori di patrimoni erano per lo più figli del popolo i cui genitori avevano investito tutte le risorse possibili per dare un titolo al proprio figlio da utilizzare come merce di scambio per la scalata ad una dote. Il sensale doveva anche essere informato sui precedenti morali della ragazza e sui fallimenti di precedenti contrattazioni. Molti stimati professionisti dell’epoca hanno contratto matrimonio attraverso questa esperienza.
Oggi i giovani non conoscono i mestieri del passato, a loro restano solo alcune foto ingiallite dal tempo, qualche vecchio oggetto del passato conservato in qualche soffitta o, infine, qualche disegno lasciato dal nonno “conservatore”.
Nel 1986, Anna Sciacovelli pubblicò il volumetto “Bari che scompare” (Congedo Editore), nel quale fa una disamina dei mestieri, intitolando i vari capitoli con l’appellativo dialettale barese del mestiere a cui si riferisce, ma descrivendo in italiano lo svolgersi di ciascuna attività. Così apprendiamo che “la capère” era la donna che acconciava e pettinava, oggi sostituita dal parrucchiere, mentre “la fèmmene de le pezze vijcchie”, era la donna che comprava stracci dando in cambio catini, piatti, tegami, graticole di ferro, ecc., “u’ mulafurbece” (l’arrotino), artigiano che non aveva una sede fissa, ma si spostava per le strade, con il suo strano veicolo o con la bicicletta, dotati di mola, provvedendo dietro umile compenso ad affilare taglienti di ogni genere, “U parambrelle” (l’ombrellaio), il mestiere di colui che riparava ombrelli. Un personaggio mitico di Bari era “U chiappacane” (l’accalappiacani). Si chiamava “Faièle” (Raffaele), uomo simpatico e bonario, il cui compito era quello di accalappiare i cani randagi e per svolgere il suo lavoro era dotato di una lunga asta alla cui estremità era attaccato un collare a forma di cappio che, una volta infilato al collo dell’animale, difficilmente questi poteva svincolarsi.
Un altro interessante testo della Levante Editori di Bari: “Botteghe e bottegai nell’ottocento barese. Il Tribunale di Commercio a Bari”, di Franco Martino, fa rinascere negli ambienti caratteristici in cui viveva la popolazione barese dell’epoca, i numerosi personaggi che operavano nel territorio barese, quali bottegai, sarti, barbieri, carbonai, fabbriferrai, sensali di matrimonio, ecc.
L’attività di sartina, ad esempio, per molte giovanette di modesta famiglia rappresentava una prospettiva di lavoro unica, al punto da farle rimanere zitelle, circoscritte in ambienti limitati e chiuse ai rapporti umani. Anche per il sarto era una scelta per necessità, più che per vocazione, spesso imposta anche da fragili stati di salute.
Al barbiere toccava il titolo di “maestro”, mentre il locale ove si esercitava il mestiere si chiamava “salone”. Il barbiere, poiché simbolo dell’igiene, all’occorrenza veniva chiamato a fare da infermiere, cavadenti e, perché no, a far punture agli ammalati. La sala da barba rappresentava una sorta di punto di incontro e l’avvicendarsi degli interlocutori consentiva di effettuare una sorta di cronaca quotidiana di fatti e fatterelli, attraverso un giornale parlato. La sala si trasformava in ‘redazione’ ed era abbastanza facile individuare nel maestro il’ ‘redattore’, il più informato di tutti, che mentre utilizzava con disinvoltura il rasoio o la punta delle forbici, organizzava la “pagina della cronaca”, ricomponendo i vari pezzi degli eventi, soprattutto quello che noi chiamiamo oggi ‘gossip’. In sostanza nel salone si svolgeva un piccolo, democratico, rispettoso parlamento in cui tutte le componenti sociali avevano diritto di parola ed il maestro, che rappresentava la fonte attendibile, intervenendo di tanto in tanto, aggiustava il tiro della conversazione. Insomma assumeva la funzione di moderatore. La tradizione vuole che il barbiere avesse anche una vocazione innata per la musica, privilegiando quella operistica, forse ispirato dal più famoso Barbiere di Siviglia e poi, non vi era barbitonsore che non sapesse suonare uno strumento. Uno dei mestieri più interessanti e curiosi era rappresentato dal sensale dei matrimoni. Infatti, qualche tempo fa sposarsi non era cosa facile, dal momento che le ragazze erano ben custodite dalle loro mamme, per cui avere occasioni come quelle odierne era cosa da sogno. Infatti, a scuola non esistevano classi miste, incontrarsi con una ragazza era impresa assai difficile, bisognava ricorrere a stratagemmi per incontrare l’innamorata, non esistevano cellulari, locali notturni, discoteche, locali da ballo, pub e, cosa importante, non vi era quella libertà, che oggi si spreca. Per svariati motivi ebbe molto successo la “professione” del sensale di matrimoni. Costui era un mediatore che proponeva affari di cuore… e di patrimoni, attività oggi scomparsa.
Il sensale (o mediatore), doveva avere una qualità non comune, quella di essere riservato, discreto, doveva tener conto della suscettibilità umana in tutti i risvolti di natura psicologica ed emotiva, insomma aveva il compito di favorire il matrimonio combinato, ma senza far apparire gli interessi nascosti.
Neppure l’agente delle tasse era aggiornato, come il sensale, sulla consistenza patrimoniale di certe famiglie. Il giovedì prima del matrimonio i parenti erano invitati alla casa degli sposi per ispezionare i regali, ma soprattutto la consistenza del corredo e perché no anche la carta dotale, dalla quale si rilevava, non solo la quantità dei beni, ma anche se la disponibilità del patrimonio era dal “primo giorno” e libera da vincoli. I cacciatori di patrimoni erano per lo più figli del popolo i cui genitori avevano investito tutte le risorse possibili per dare un titolo al proprio figlio da utilizzare come merce di scambio per la scalata ad una dote. Il sensale doveva anche essere informato sui precedenti morali della ragazza e sui fallimenti di precedenti contrattazioni. Molti stimati professionisti dell’epoca hanno contratto matrimonio attraverso questa esperienza.
Oggi i giovani non conoscono i mestieri del passato, a loro restano solo alcune foto ingiallite dal tempo, qualche vecchio oggetto del passato conservato in qualche soffitta o, infine, qualche disegno lasciato dal nonno “conservatore”.