LIVALCA - «… Castellani, che al neorealismo ha dato pagine di squisito cinema, ha
aggiunto una nuova perla per felicità d’invenzione, per pienezza d’ispirazione e per
bontà di realizzazione che poche volte è dato di vedere sullo schermo. Egli è un
ottimista, lontano dagli scoramenti di De Sica e forse così costruisce di più perché ha
capito l’anima della nostra gente che alla sofferenza unisce istintivamente la
speranza e la fede» queste parole di Piero Virgintino - il critico che raccontava la
trama di un film con piccoli ma significativi fotogrammi, in cui felicità e sofferenza si
alternavano in modo che lo spettatore diventasse parte attiva della pellicola…
Quanta gente al termine del primo tempo, quando tornavano le luci, veniva sorpresa ad asciugare una lacrima o ancora con un sorriso sul volto - erano dedicate al lavoro del regista Renato Castellani e riferite al film “Due soldi di speranza”, opera gratificata con ‘Gran Premio’ a Cannes.
L’inciso riproposto è tratto dal nuovo volume di Nicola Mascellaro “Il cinema nei cinema di Bari. Dal neorealismo alla commedia all’italiana” (Di Marsico Libri Bari, pp. 472, ill., € 22,00) che a gennaio 2024 si è presentato su un mercato delle pubblicazioni mai così fiorente (senz’altro merito delle nuove tecnologie che permettono tirature esigue). Mascellaro con l’editore Domenico Di Marsico è giunto al dodicesimo libro - qualora il numero risulti errato la colpa è di Nicola perché la penultima volta che ci siamo visti abbiamo operato una ricostruzione e tale fu il risultato… per cui siamo tutti in attesa della famosa ‘tredicesima’ - che ritengo sia un record, qualora venga omologato, difficilmente superabile.
L’ex direttore della Gazzetta del Mezzogiorno Lino Patruno, in una prefazione brillante e circostanziata, ci svela parte dell’arcano di questo scrittore: «Da vecchio scafato archivista della Gazzetta, Nicola ha un valore aggiunto rispetto ad altri: sa mettere mano alle copie arretrate meglio di uno speleologo in grotta», ma la mia previsione, da provetto profano, non esclude che ci propini a breve racconti o romanzi… perché anche chi va giù, prima o poi, torna in ‘superficie’. I libri di Mascellaro sono scritti a quattro mani in virtù delle molteplici citazioni frutto della sagacia narrativa di Virgintino, ma resteranno nella storia del cinema, non solo di Bari, per la miriade di notizie che i nati nella generazione della televisione prima o dopo dovranno consultare perché il passato è un prologo per ogni cosa e non perché lo abbia detto il mio amico William, nato il 23 aprile 1564 a Stratford-upon-Avon e morto 52 anni dopo nel medesimo posto, nell’identico giorno e mese. Non è un caso che mi sia rivolto a Shakespeare, perché il regista Renato Castellani, citato da Virgintino all’inizio di questo scritto, nel 1954 ha vinto il ‘Leone d’oro’ a Venezia per un film dal titolo “Giulietta e Romeo”, ispirato dalla tragedia del drammaturgo e poeta inglese. Secondo Mascellaro questa pellicola proiettata al cinema Margherita è rimasta in cartellone dal 26 settembre al 2 ottobre del 1954 e noi ci crediamo, ma ci gustiamo un pezzo di giornalismo puro a cui, sono certo, sarà seguita un’impeccabile impaginazione - una volta la pagina di un giornale si creava con il piombo e ci voleva non poca maestria a giostrare con le nove colonne e con il corpo del carattere per ‘creare’ un qualcosa che carpisse l’attenzione del lettore - in maniera da concedere il giusto risalto ad una prosa asciutta, ma ricca di contenuti come lo erano gli italiani in quei faticosi ma sempre decorosi anni: «La narrazione di Castellani è riccamente alimentata da continue, deliziose annotazioni ambientali che contribuiscono a fare del film un vero mirabile affresco, in cui c’è storia, poesia, tragedia. Sovente, se non sempre, ci si trova dinanzi a vere composizioni pittoriche di una straordinaria forza suggestiva; e rare volte il colore, un technicolor perfettamente dosato, ha brillato sullo schermo come una così stupenda tavolozza: colori per l’incantevole scenario ambientale - la campagna veneta, i castelli scaligeri, i chiostri, le cittadelle, le sale dei cinquecenteschi palazzi - colori per i magnifici costumi, colori per le scene a cui va dato merito a Robert Krasker. L’interpretazione è sorvegliatissima e anch’essa alterna toni realistici e toni teatrali. Completano la bellezza di quest’opera le musiche di Roman Vlad. E’ uno spettacolo di prim’ordine, animato, commovente, suggestivo al cui confronto ogni altra edizione precedente impallidisce».
Non ho visto il film, ma la prosa del Maestro Virgintino mi stimola a recuperare… chiederò alle mie figlie se, grazie alla rete, è possibile soddisfare la richiesta. Ai lettori consiglio di leggere ciò che scrive il Maestro Mascellaro a proposito del ‘Leone d’oro’ vinto dalla pellicola: si trattò di un compromesso ‘politico’. Siamo partiti dal film “Due soldi di speranza” che spiegava come i soldi non sono tutto, quando si tratta di realizzare un sogno che si chiama amore, e che faceva dire a Talete - uno dei sette sapienti della Grecia - «Coloro che non posseggono nulla hanno pur sempre la speranza».
Nel 1955 l’avvocato Valerio Zurlini gira il suo primo film da regista “Le ragazze di San Frediano” ispirato dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini (comunque il titolo del libro riporta Sanfrediano scritto tutto unito) e che narra la storia delle ragazze di un quartiere di Firenze alle prese con un giovane, ben dotato fisicamente, meccanico che risulta un simpatico ‘sciupafemmine’ poco avvezzo al matrimonio. Mascellaro ci ricorda che il libro e il film non hanno uguale conclusione, mentre i due attori protagonisti sono accomunati da identica sfortunata fine vita: entrambi vittime di incidenti. La giovanissima attrice Marcella Mariani muore, un mese prima che la pellicola fosse proiettata al cinema Santalucia, perchè l’aereo su cui viaggiava, in rientro dal Belgio, cadeva sul Terminillo. L’altro protagonista, il brillante giovane attore Antonio Cifariello che ha lavorato con buon successo anche in televisione, inviato in Africa nel 1968 dalla RAI per realizzare un documentario, muore per incidente aereo sorvolando lo Zambia: aveva solo 38 anni.
Cifariello era figlio di quel nostro Filippo (Molfetta 1864-Napoli 1936) noto scultore, che diede vita alla scuola del verismo napoletano creando opere in bronzo, argento, marmo, terracotta e gesso. Ora, lettori, concedetemi un breve ‘volo pindarico’ che, nel rendere omaggio a Filippo Cifariello, premia la puntigliosità anche di un nostro grande uomo come lo fu Pasquale Sorrenti. Pasquale, nel suo prezioso volume “Pittori, scultori, architetti e artigiani pugliesi dall’antichità ai nostri giorni” (Levante Bari, 1990), riuscì nel non facile compito di mettere insieme un elenco quasi - lui mi avrebbe ‘abolito’ il quasi - esaustivo delle opere dell’artista che lui volle considerare ‘scultore e scrittore’. Filippo Cifariello si è tolto la vita all’età di 72 anni dopo una travagliata esistenza e tre matrimoni: mi ero occupato dello scultore in anni passati e, quindi, feci presente a Sorrenti che potevo essergli d’aiuto, la sua risposta fu: «… uccise la prima moglie francese, la seconda italiana perì per una disgrazia domestica, la terza prussiana gli ha dato i due figli in tarda età». Sapeva tutto e, non penso per accontentarmi, concluse il suo medaglione su Cifariello con queste parole: «Malgrado le molte vicissitudini familiari, sfociate in cupe tragedie di delitti e prigioni, Cifariello riuscì ad uscirne fuori e riabilitarsi dall’onta di aver ucciso, sia pure per onore». Grande Sorrenti che, secondo un proprio codice etico personale, non fece riferimento all’infausta fine dell’artista, ma diede solo poche scarne notizie sulle disavventure di vita: facoltà o discrezione del lettore approfondire, qualora fosse interessato.
Mascellaro raccontando del film targato 1955, “La donna più bella del mondo”, liberamente ispirato alla storia di Natalina (nata il 25 dicembre 1874, per cui il nome) Cavalieri, conosciuta in tutto il mondo come Lina, ci segnala che rimase per 12 giorni consecutivi, nel dicembre del ‘55, nel cartellone del Margherita. Il film, una produzione italiana-francese, si avvale della prestigiosa regia dell’americano Robert Z. Leonard (in quei tempi abbastanza famoso da oltre 20 anni e in auge per la pellicola “Risposiamoci tesoro” con Van Johnson, Barry Sullivan e Kathryn Grayson) su soggetto del regista Maleno Malenotti, che fu anche produttore. Non penso di aver mai visto il film, ma so abbastanza dell’avventurosa e sfortunata vita della cantante romana, che vanta esibizioni anche alle Folies Bergère e che debuttò nel mondo della lirica con “La bohème” di Puccini, come ci ricorda Giuseppe Triggiani nel suo libro “Il Melodramma nel mondo 1597-1987” (Levante Bari, 1988). Si narra che D’Annunzio le regalò con dedica una copia del suo romanzo “Il piacere” definendola ‘somma incarnazione di Venere in Terra”… non è dato sapere se la Lina abbia mai letto le peripezie di Andrea Sperelli. Gina Lollobrigida, indiscussa protagonista della pellicola, il 5 luglio 1956 vinceva la prima edizione del premio David di Donatello, oltre che per l’interpretazione, anche per aver intonato la parte canora della pellicola. Ora dovrei dirvi che un giornalista esperto del mestiere avanzò dei dubbi al riguardo… quando riuscirò a vedere la pellicola tornerò sull’argomento. Dimenticavo l’altro protagonista del film, un giovane e prestante Vittorio Gassman, non ancora ‘mattatore’ fu liquidato da Virgintino con due parole ‘senza rilievo’ la sua prova.
Nel 1956 il regista Daniel Mann dirige “La rosa tatuata”, pellicola che vede la nostra Anna Magnani al fianco di Burt Lancaster, tratto dal lavoro teatrale di Tennessee Williams (Mi sono sempre chiesto il motivo per cui Thomas Lanier Williams abbia optato per lo pseudonimo di Tennessee: lui, nato nei primi anni del Novecento a Columbus, Stato del Mississippi, ha scelto il nome di uno stato e di un fiume degli Stati Uniti che, affluente di sinistra dell’Ohio, confluisce comunque nel Mississippi… forse era per testimoniare che il suo teatro avrebbe avuto sempre una connotazione ambientata nel sud dell’America dove imperava una donna mite e sottomessa, un maschio dominatore e un’aristocrazia in decadimento). Di lui ricordiamo due lavori celebri: “Un tram che si chiama desiderio” e “La gatta sul tetto che scotta” entrambi del 1963 e uno del 1976 poco noto “Una donna chiamata Moise” in cui dichiarava apertamente la sua, mai nascosta, omosessualità.
Mascellaro ci comunica che l’Impero fu il cinema del debutto della pellicola che ebbe enorme successo per la capace, frizzante e veritiera interpretazione degli attori protagonisti, la qual cosa fece scrivere a Virgintino «… e si capisce subito perché gli americani hanno attribuito l’Oscar alla Magnani, un’attrice che da qualche tempo è messa da parte dai nostri strani produttori…». Nannarella è stata la prima attrice italiana a vincere l’Oscar come protagonista e la prima non di lingua inglese… va detto che il film era una produzione americana.
Molto avvincente-stimolante la storia del film Ben Hur, tratto dal romanzo scritto da Lew Wallace nel 1880 e che pare abbia venduto oltre 49 milioni di copie, che vinse ben 11 premi Oscar nel 1969: la storia del centurione Messala e del nobile Ben-Hur, una volta grandi amici, si sviluppa sotto Tiberio (imperatore dal 14 al 37) e vive il suo momento più emozionante nella gara delle bighe. I quasi 10 minuti della scena restano scolpiti nella memoria dello spettatore (… ancor oggi se sintonizzo la mia memoria su quell’evento: rivedo Messala morente che rivela a Ben-Hur che la madre e la sorella sono vive, ma si trovano nella ‘Valle dei lebbrosi’…. presumo di aver visto sei volte il film).
‘I dieci Comandamenti’ - da me visionato se non dieci volte, poco mi manca per arrivarci - ebbero bisogno del talento del famoso regista e produttore (nel 1912 fondò con un socio una casa di produzione che divenne Paramount) Cecil Blount De Mille, il quale aveva già diretto nel 1923 una versione muta del film.
La prima al Petruzzelli, da bambino, con mia zia Emilia, professoressa di francese, e la sua amica del cuore Morena: aveva acquistato i biglietti il padre Nicola dopo una paziente fila. Forbita, mai prevedibile e banale, la ‘pennellata’ che Virgintino tributa all’enorme sforzo produttivo del film: «Raffinato nella tecnica e nei trucchi, sfarzoso e imponente il film cela fra le pieghe della grandiosità dei mezzi, l’artificio e il candore, l’astuzia e la compunzione. Il lungometraggio sostiene bene le tre ore e mezzo circa di spettacolo, specialmente nella seconda parte, e non gli si può negare un messaggio d’amore e libertà».
A tanta saggezza posso solo aggiungere che il lavoro di Mascellaro, utilissimo oggi, lo sarà ancor di più domani per cui va tramandato nel modo… più ‘corretto’ possibile.
Quanta gente al termine del primo tempo, quando tornavano le luci, veniva sorpresa ad asciugare una lacrima o ancora con un sorriso sul volto - erano dedicate al lavoro del regista Renato Castellani e riferite al film “Due soldi di speranza”, opera gratificata con ‘Gran Premio’ a Cannes.
L’inciso riproposto è tratto dal nuovo volume di Nicola Mascellaro “Il cinema nei cinema di Bari. Dal neorealismo alla commedia all’italiana” (Di Marsico Libri Bari, pp. 472, ill., € 22,00) che a gennaio 2024 si è presentato su un mercato delle pubblicazioni mai così fiorente (senz’altro merito delle nuove tecnologie che permettono tirature esigue). Mascellaro con l’editore Domenico Di Marsico è giunto al dodicesimo libro - qualora il numero risulti errato la colpa è di Nicola perché la penultima volta che ci siamo visti abbiamo operato una ricostruzione e tale fu il risultato… per cui siamo tutti in attesa della famosa ‘tredicesima’ - che ritengo sia un record, qualora venga omologato, difficilmente superabile.
L’ex direttore della Gazzetta del Mezzogiorno Lino Patruno, in una prefazione brillante e circostanziata, ci svela parte dell’arcano di questo scrittore: «Da vecchio scafato archivista della Gazzetta, Nicola ha un valore aggiunto rispetto ad altri: sa mettere mano alle copie arretrate meglio di uno speleologo in grotta», ma la mia previsione, da provetto profano, non esclude che ci propini a breve racconti o romanzi… perché anche chi va giù, prima o poi, torna in ‘superficie’. I libri di Mascellaro sono scritti a quattro mani in virtù delle molteplici citazioni frutto della sagacia narrativa di Virgintino, ma resteranno nella storia del cinema, non solo di Bari, per la miriade di notizie che i nati nella generazione della televisione prima o dopo dovranno consultare perché il passato è un prologo per ogni cosa e non perché lo abbia detto il mio amico William, nato il 23 aprile 1564 a Stratford-upon-Avon e morto 52 anni dopo nel medesimo posto, nell’identico giorno e mese. Non è un caso che mi sia rivolto a Shakespeare, perché il regista Renato Castellani, citato da Virgintino all’inizio di questo scritto, nel 1954 ha vinto il ‘Leone d’oro’ a Venezia per un film dal titolo “Giulietta e Romeo”, ispirato dalla tragedia del drammaturgo e poeta inglese. Secondo Mascellaro questa pellicola proiettata al cinema Margherita è rimasta in cartellone dal 26 settembre al 2 ottobre del 1954 e noi ci crediamo, ma ci gustiamo un pezzo di giornalismo puro a cui, sono certo, sarà seguita un’impeccabile impaginazione - una volta la pagina di un giornale si creava con il piombo e ci voleva non poca maestria a giostrare con le nove colonne e con il corpo del carattere per ‘creare’ un qualcosa che carpisse l’attenzione del lettore - in maniera da concedere il giusto risalto ad una prosa asciutta, ma ricca di contenuti come lo erano gli italiani in quei faticosi ma sempre decorosi anni: «La narrazione di Castellani è riccamente alimentata da continue, deliziose annotazioni ambientali che contribuiscono a fare del film un vero mirabile affresco, in cui c’è storia, poesia, tragedia. Sovente, se non sempre, ci si trova dinanzi a vere composizioni pittoriche di una straordinaria forza suggestiva; e rare volte il colore, un technicolor perfettamente dosato, ha brillato sullo schermo come una così stupenda tavolozza: colori per l’incantevole scenario ambientale - la campagna veneta, i castelli scaligeri, i chiostri, le cittadelle, le sale dei cinquecenteschi palazzi - colori per i magnifici costumi, colori per le scene a cui va dato merito a Robert Krasker. L’interpretazione è sorvegliatissima e anch’essa alterna toni realistici e toni teatrali. Completano la bellezza di quest’opera le musiche di Roman Vlad. E’ uno spettacolo di prim’ordine, animato, commovente, suggestivo al cui confronto ogni altra edizione precedente impallidisce».
Non ho visto il film, ma la prosa del Maestro Virgintino mi stimola a recuperare… chiederò alle mie figlie se, grazie alla rete, è possibile soddisfare la richiesta. Ai lettori consiglio di leggere ciò che scrive il Maestro Mascellaro a proposito del ‘Leone d’oro’ vinto dalla pellicola: si trattò di un compromesso ‘politico’. Siamo partiti dal film “Due soldi di speranza” che spiegava come i soldi non sono tutto, quando si tratta di realizzare un sogno che si chiama amore, e che faceva dire a Talete - uno dei sette sapienti della Grecia - «Coloro che non posseggono nulla hanno pur sempre la speranza».
Nel 1955 l’avvocato Valerio Zurlini gira il suo primo film da regista “Le ragazze di San Frediano” ispirato dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini (comunque il titolo del libro riporta Sanfrediano scritto tutto unito) e che narra la storia delle ragazze di un quartiere di Firenze alle prese con un giovane, ben dotato fisicamente, meccanico che risulta un simpatico ‘sciupafemmine’ poco avvezzo al matrimonio. Mascellaro ci ricorda che il libro e il film non hanno uguale conclusione, mentre i due attori protagonisti sono accomunati da identica sfortunata fine vita: entrambi vittime di incidenti. La giovanissima attrice Marcella Mariani muore, un mese prima che la pellicola fosse proiettata al cinema Santalucia, perchè l’aereo su cui viaggiava, in rientro dal Belgio, cadeva sul Terminillo. L’altro protagonista, il brillante giovane attore Antonio Cifariello che ha lavorato con buon successo anche in televisione, inviato in Africa nel 1968 dalla RAI per realizzare un documentario, muore per incidente aereo sorvolando lo Zambia: aveva solo 38 anni.
Cifariello era figlio di quel nostro Filippo (Molfetta 1864-Napoli 1936) noto scultore, che diede vita alla scuola del verismo napoletano creando opere in bronzo, argento, marmo, terracotta e gesso. Ora, lettori, concedetemi un breve ‘volo pindarico’ che, nel rendere omaggio a Filippo Cifariello, premia la puntigliosità anche di un nostro grande uomo come lo fu Pasquale Sorrenti. Pasquale, nel suo prezioso volume “Pittori, scultori, architetti e artigiani pugliesi dall’antichità ai nostri giorni” (Levante Bari, 1990), riuscì nel non facile compito di mettere insieme un elenco quasi - lui mi avrebbe ‘abolito’ il quasi - esaustivo delle opere dell’artista che lui volle considerare ‘scultore e scrittore’. Filippo Cifariello si è tolto la vita all’età di 72 anni dopo una travagliata esistenza e tre matrimoni: mi ero occupato dello scultore in anni passati e, quindi, feci presente a Sorrenti che potevo essergli d’aiuto, la sua risposta fu: «… uccise la prima moglie francese, la seconda italiana perì per una disgrazia domestica, la terza prussiana gli ha dato i due figli in tarda età». Sapeva tutto e, non penso per accontentarmi, concluse il suo medaglione su Cifariello con queste parole: «Malgrado le molte vicissitudini familiari, sfociate in cupe tragedie di delitti e prigioni, Cifariello riuscì ad uscirne fuori e riabilitarsi dall’onta di aver ucciso, sia pure per onore». Grande Sorrenti che, secondo un proprio codice etico personale, non fece riferimento all’infausta fine dell’artista, ma diede solo poche scarne notizie sulle disavventure di vita: facoltà o discrezione del lettore approfondire, qualora fosse interessato.
Mascellaro raccontando del film targato 1955, “La donna più bella del mondo”, liberamente ispirato alla storia di Natalina (nata il 25 dicembre 1874, per cui il nome) Cavalieri, conosciuta in tutto il mondo come Lina, ci segnala che rimase per 12 giorni consecutivi, nel dicembre del ‘55, nel cartellone del Margherita. Il film, una produzione italiana-francese, si avvale della prestigiosa regia dell’americano Robert Z. Leonard (in quei tempi abbastanza famoso da oltre 20 anni e in auge per la pellicola “Risposiamoci tesoro” con Van Johnson, Barry Sullivan e Kathryn Grayson) su soggetto del regista Maleno Malenotti, che fu anche produttore. Non penso di aver mai visto il film, ma so abbastanza dell’avventurosa e sfortunata vita della cantante romana, che vanta esibizioni anche alle Folies Bergère e che debuttò nel mondo della lirica con “La bohème” di Puccini, come ci ricorda Giuseppe Triggiani nel suo libro “Il Melodramma nel mondo 1597-1987” (Levante Bari, 1988). Si narra che D’Annunzio le regalò con dedica una copia del suo romanzo “Il piacere” definendola ‘somma incarnazione di Venere in Terra”… non è dato sapere se la Lina abbia mai letto le peripezie di Andrea Sperelli. Gina Lollobrigida, indiscussa protagonista della pellicola, il 5 luglio 1956 vinceva la prima edizione del premio David di Donatello, oltre che per l’interpretazione, anche per aver intonato la parte canora della pellicola. Ora dovrei dirvi che un giornalista esperto del mestiere avanzò dei dubbi al riguardo… quando riuscirò a vedere la pellicola tornerò sull’argomento. Dimenticavo l’altro protagonista del film, un giovane e prestante Vittorio Gassman, non ancora ‘mattatore’ fu liquidato da Virgintino con due parole ‘senza rilievo’ la sua prova.
Nel 1956 il regista Daniel Mann dirige “La rosa tatuata”, pellicola che vede la nostra Anna Magnani al fianco di Burt Lancaster, tratto dal lavoro teatrale di Tennessee Williams (Mi sono sempre chiesto il motivo per cui Thomas Lanier Williams abbia optato per lo pseudonimo di Tennessee: lui, nato nei primi anni del Novecento a Columbus, Stato del Mississippi, ha scelto il nome di uno stato e di un fiume degli Stati Uniti che, affluente di sinistra dell’Ohio, confluisce comunque nel Mississippi… forse era per testimoniare che il suo teatro avrebbe avuto sempre una connotazione ambientata nel sud dell’America dove imperava una donna mite e sottomessa, un maschio dominatore e un’aristocrazia in decadimento). Di lui ricordiamo due lavori celebri: “Un tram che si chiama desiderio” e “La gatta sul tetto che scotta” entrambi del 1963 e uno del 1976 poco noto “Una donna chiamata Moise” in cui dichiarava apertamente la sua, mai nascosta, omosessualità.
Mascellaro ci comunica che l’Impero fu il cinema del debutto della pellicola che ebbe enorme successo per la capace, frizzante e veritiera interpretazione degli attori protagonisti, la qual cosa fece scrivere a Virgintino «… e si capisce subito perché gli americani hanno attribuito l’Oscar alla Magnani, un’attrice che da qualche tempo è messa da parte dai nostri strani produttori…». Nannarella è stata la prima attrice italiana a vincere l’Oscar come protagonista e la prima non di lingua inglese… va detto che il film era una produzione americana.
Molto avvincente-stimolante la storia del film Ben Hur, tratto dal romanzo scritto da Lew Wallace nel 1880 e che pare abbia venduto oltre 49 milioni di copie, che vinse ben 11 premi Oscar nel 1969: la storia del centurione Messala e del nobile Ben-Hur, una volta grandi amici, si sviluppa sotto Tiberio (imperatore dal 14 al 37) e vive il suo momento più emozionante nella gara delle bighe. I quasi 10 minuti della scena restano scolpiti nella memoria dello spettatore (… ancor oggi se sintonizzo la mia memoria su quell’evento: rivedo Messala morente che rivela a Ben-Hur che la madre e la sorella sono vive, ma si trovano nella ‘Valle dei lebbrosi’…. presumo di aver visto sei volte il film).
‘I dieci Comandamenti’ - da me visionato se non dieci volte, poco mi manca per arrivarci - ebbero bisogno del talento del famoso regista e produttore (nel 1912 fondò con un socio una casa di produzione che divenne Paramount) Cecil Blount De Mille, il quale aveva già diretto nel 1923 una versione muta del film.
La prima al Petruzzelli, da bambino, con mia zia Emilia, professoressa di francese, e la sua amica del cuore Morena: aveva acquistato i biglietti il padre Nicola dopo una paziente fila. Forbita, mai prevedibile e banale, la ‘pennellata’ che Virgintino tributa all’enorme sforzo produttivo del film: «Raffinato nella tecnica e nei trucchi, sfarzoso e imponente il film cela fra le pieghe della grandiosità dei mezzi, l’artificio e il candore, l’astuzia e la compunzione. Il lungometraggio sostiene bene le tre ore e mezzo circa di spettacolo, specialmente nella seconda parte, e non gli si può negare un messaggio d’amore e libertà».
A tanta saggezza posso solo aggiungere che il lavoro di Mascellaro, utilissimo oggi, lo sarà ancor di più domani per cui va tramandato nel modo… più ‘corretto’ possibile.