'Il mio letto è una nave', un libro utile a tutti coloro che si prendono cura dei bambini in stato di fragilità

SANTA FIZZAROTTI SELVAGGI - “La capacità di provare ancora stupore è essenziale nel processo della creatività.” (D.W. Winnicott)

Facile non è recensire un libro quando questo ci viene affidato dall’Autore quale sua creatura per cui abbiamo il dovere di curarlo e prendercene cura, vale a dire leggerlo con sospensione di giudizio per cogliere ogni sfumatura e diffonderlo in modo che diventi patrimonio di tutti.

Il libro di Manuela Trinci, psicoterapeuta infantile con formazione psicoanalitica, saggista e studiosa di letteratura per l’infanzia, ha recentemente pubblicato un libro dal titolo emblematico: “Il mio letto è una nave”. Si tratta di una grande metafora relativa all’importanza dell’ illusione, del gioco, della fantasia e immaginazione nella cura del bambino ospedalizzato come si legge nel sottotitolo. Il lavoro è stato edito da “La nave di Teseo” in collaborazione con la Fondazione Meyer. L’introduzione è firmata da Simona Argentieri, nota psicoanalista . Questo libro è dedicato in modo particolare ai bambini in condizioni di grande fragilità che sentono di essere alla mercé di un mondo assolutamente estraneo. In un lavoro di L. Lemonie– Luccioni “Il sogno del cosmonauta” Poiesis editrice, si afferma che “l’uomo non può uscire da questo mondo”, nel senso che noi esseri umani ricostruiamo sempre il nostro antico spazio. Il grido della nascita fa sì che il neonato venga subito preso dalle braccia di qualcuno, come il lamento di un bimbo ammalato fa sì che ci si debba preoccupare delle sue condizioni. La presenza dell’Altro è dunque ineludibile.

Il “cosmonauta” invero ci insegna che esiste in noi già all’atto della nascita il senso della estraneità assoluta : quando un bambino viene ospedalizzato per vari motivi questi non si ritrova più in un ambiente familiare ma tra le braccia di “un letto“ diverso e dunque straniero. Il pensiero di D.W. Winnicott attraversa tutto il lavoro di Manuela Trinci: questo libro ci appare di grande insegnamento per tutti coloro che si occupano della cura e del prendersi cura non solo dei bambini ospedalizzati ma di tutte le persone ammalate di qualsiasi età. Non si dimentichi che quando ci si ammala si regredisce e consapevolmente o no si evoca l’accudimento materno ricevuto nell’infanzia. Colgo l’occasione per precisare che nel termine “cura” esiste una particolare aggettivazione poiché il termine deriva dal sanscrito Ku o Kav, la stessa di Kavi, saggio. e invero significa prendersi carico dell’Altro . Senza questa assunzione di responsabilità o “amorevolezza” non esiste nessuna cura che possa lenire i tormenti interiori di un qualsiasi malato ,ma in modo particolare di un bambino che si vede sradicato dal nido . Non possiamo dimenticare che il termine greco therapeia vuol dire servizio, mettersi all'ascolto dell'Altro, quello latino di cura sta per sollecitudine verso qualcuno. Un preciso richiamo, dunque, alla “ preoccupazione materna primaria”: il pensiero per il proprio bambino . E così leggiamo in U. Curi che “in latino curare è un verbo intransitivo, vuol dire prendersi cura di qualcuno, concetto che in inglese si esprime con il verbo “to care” che indica qualcosa o qualcuno che mi riguarda, mentre il verbo transitivo che esprime il significato moderno della cura è "to cure”. Tutto ciò fa molto riflettere perché non si tratta di somministrare solo farmaci ma di porsi al servizio amorevole della persona, chiunque sia e di qualsiasi età. Il paziente- bambino ospedalizzato si trova a contatto con l’estraneità assoluta e a volte non comprende le tante intrusività di aghi vari a qualsiasi ora vivendo tali manovre come una sorta di punizione: il bambino, e non solo, a volte sente di essere colpevole per qualcosa di noto o sconosciuto che deve espiare. Non è assolutamente vero che l’infanzia sia la terra felice: l’infanzia per sua stessa natura è la terra dell’angoscia, perché si è dipendenti in modo più o meno assoluto dagli altri . Non è casuale che Winnicott affermi che in queste condizioni affiori il sentimento di “solitudine fondamentale“. E d’altra parte Quasimodo ebbe a scrivere che ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole ed è subito sera “ Giacere forzatamente nel letto per una malattia è sempre una “esperienza penosa” e fa paura perché” interrompe i dolci modi della quotidianità”: Simona Argentieri ha colto il focus del problema . Tutto di noi , infatti, nell”essere fuori dalla dimora familiare viene sconvolto e il bambino in modo particolare sente “il suo corpo tra le mani degli altri” che certo non sono le mani della madre che tengono e contengono. Difficile è far comprendere che trattasi di una esperienza che dovrebbe condurre alla guarigione : esiste solo il “ dolore”…

Il libro è denso di citazioni che conducono concettualmente l’Autrice, il che non significa porsi al riparo attraverso un pensiero altro ma un rielaborare quei pensieri alla luce dell’esperienza clinica,laddove per clinica intendiamo proprio lo stare vicino al letto del malato. E’ più che evidente che per essere “ al servizio” e “ in ascolto” del paziente necessita la formazione del personale tutto, a cominciare dai medici. Nei gruppi Balint, condotti da chi scrive con il ben noto Andreas Giannakoulas, emergevano le difficoltà emotive del personale medico e infermieristico. Davvero necessaria è la riflessione sul Rapporto Medico- Paziente che certo subisce anche le influenze dell’ambiente mentre in gioco entrano le emozioni. In questo lavoro è sottolineato l’aspetto emozionale che affiora nell’ incontro con bambini portatore di malattie gravi e nel vedere l’infanzia in sofferenza.

Emanuela Trinci ha avuto sempre una grande attenzione nei confronti dell’ infanzia e non posso non ricordare un caso esaminato e studiato da Manuela circa la bambina che aveva paura del vento. “Il mio letto è una nave “trova“ una sorta di principio omeopatico della mente : curare l’immaginazione con l’immaginazione si legge a pagina 29. Il punto di riferimento culturale , si ribadisce , è D. W. Winnicott perché è stato il pediatra - psicanalista che in modo particolare si è occupato dell’infanzia e del gioco, dell’importanza del rapporto madre bambino. In questo lavoro così articolato non manca un capitolo che riguarda un viaggio nella storia della carità della cura : una carità che è amore come da etimo di cura. 

L’Autrice cita tra gli altri anche Florence Nightingale, infermiera britannica chiamata la” signora della lampada” perché di notte curava tutti i feriti sul campo di battaglia indistintamente come fu per il chirurgo Ferdinando Palasciano che nel 1848 nei moti di Messina si prese cura di tutti i feriti . Di qui il principio di umanità e l’idea di Croce Rossa che poi Dunant pose in essere dopo aver visto le donne di Solferino curare tutti i soldati di qualsiasi appartenenza dopo la battaglia del 24 giugno del 1859 . Un compito amorevole del medico che sembra incarnare il femminile genitoriale , le cure materne. E a questo punto non posso non ricordare che in Puglia dopo la sanguinosa battaglia di Annibale contro i Romani nella piana dell’Ofanto il 2 ag. 216 a.C fu proprio una donna Paolina Busa di Canosa a curare tutti i feriti. Manuela Trinci in questo pregevole lavoro ci conduce nel labirinto della mente dell’infanzia e non mancano le opportune citazioni circa i preziosi insegnamenti di Jean Piaget, Vygotsky ,di Maria Montessori che si sono occupati di sviluppo mentale e creatività .

Ecco, la creatività quando si è in una condizione di difficoltà è la grande risorsa: fondamentale e’ poter essere in grado di far emergere nei piccoli pazienti gli aspetti dell’immaginazione per portare ad esistere parti di sé attraverso racconti, brani musicali o un oggetto investito di tutte le narrazioni possibili. Invero quando si gioca si sospende lo spazio e il tempo contenendo in tal modo quell’angoscia che tutti, nessuno escluso, percepiscono quando ci si trova in una condizione di grande estraneità come può essere quella della permanenza in un ospedale e in maggior misura, per esempio, in un pronto soccorso. Un terrore senza nome ci coglie come leggiamo in Bion, ma il gioco fa sì che il terrore possa essere arginato. A pagina 204 di questo straordinario lavoro incontriamo la Ludobiblio che piace tanto ai bambini perché i libri diventano i loro compagni di gioco. L’Autrice sottolinea che la poesia salva la vita. La poesia infatti è un modo per plasmare le forme del mondo e consente di diventare autori di se stessi. Le parole d’ altra parte inventano il mondo: possono fare ammalare ma possono anche facilitare la guarigione e comunque lenire le sofferenze. Dai bambini guidati opportunamente dal personale formato possono nascere capolavori: tutto ciò può essere di aiuto a tutti perché quando si è in un letto da soli l’unica possibilità è quella di sognare. Per tali ragioni il titolo che Manuela Trinci ha dato a questo suo recente libro è particolarmente felice. “Il mio letto è una nave” diviene davvero il sogno che ci porta in mare aperto per immaginare altri lidi, per riuscire a tollerare l’estraneità e poi tornare ad Itaca. A casa.

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