LIVALCA - La citazione dello scultore Filippo Cifariello nell’articolo in cui segnalavo l’uscita del secondo volume della serie «Il cinema nei cinema di Bari», ha spinto, lo storico responsabile dell’Archivio fotografico e di documentazione della "Gazzetta del Mezzogiorno", al secolo Nicola Mascellaro, a farmi avere, ieri, il suo lavoro del 2014 dedicato alla tormentata esistenza dell’artista di Molfetta.
Il volume di Mascellaro «Filippo Cifariello. La vita, l’arte, gli amori» (Di Marsico Libri Bari, pp. 216, ill., 2014, € 18,00) non è nei miei ricordi, anche se l’autore afferma di avermelo recapitato personalmente: potrei dirgli che difficilmente avrei dimenticato l’introduzione della professoressa Clara Gelao, come potrebbe essere che la sua memoria, senza l’ausilio dell’Archivio a lui ben noto, sia in grado di perdere colpi al cospetto della mia, lo ammetto, una volta elefantiaca oggi ‘fortezza’ senza guarnizione di sicurezza, ma servirebbe forse solo a constatare che, nonostante quello affermato da Nicola Simonetti, la vecchiaia è insopportabile… pur ridendo.
«…fu infatti proprio il Cifariello ad avere un ruolo importante nella nascita, sostenuta dall’Amministrazione Provinciale di Bari, di un ‘Museo d’Arte Moderna’ cittadino...» con questa affermazione la Gelao, esperta di Storia dell’Arte e direttrice della Pinacoteca Provinciale di Bari dai primi anni ’90 del secolo scorso, attribuisce un enorme, giusto merito allo scultore Cifariello per tale realizzazione, ma ciò non le impedirà , procedendo nel suo documentato e raffinato saggio, posto come introduzione nel testo di Mascellaro, di ‘gratificare’ lo scultore di un «… appare improprio e forzato il ruolo di vittima…».
La storia dello scultore Filippo Cifariello che Nicola ricostruisce in maniera magistrale e brillante - evito di dire geniale perché lui non è stato mai ‘incompreso’ - parte da Molfetta e dai signori Giovanna e Ferdinando, un padre ‘creativo’ che si adatta ad ogni mestiere, i quali, mettendo al mondo 19 figli in vent’ anni di matrimonio, si trovano a gestire solo cinque sopravvissuti: tre maschi e due femmine. Filippo Antonio Cifariello, secondogenito della coppia, nasce il 3 luglio del 1864 e fin da piccolo asseconda il padre nell’attività di volenteroso artigiano in grado di lavorare e plasmare la creta per creare pupazzi e figurine che venivano venduti dal produttore al consumatore: per strada.
Da Molfetta, passando per Bari, Andria e Barletta, la famiglia Cifariello si trasferisce a Napoli, dove le opere del giovane artista riscuotono un insperato successo. Eccolo a 14 anni frequentare l’Istituto di Belle Arti, il cui preside un paio di anni dopo gli comunicherà che non possedeva attitudine per l’arte, nonostante, questo lo dice la storia, le creazioni del piccolo artista fossero ricercate nelle botteghe di Spaccanapoli.
Cifariello comprende che deve mettersi in proprio e la sua arte gli regala un discreto successo e quella normale invidia che attesta che stai ‘arrivando e ti temono’. In questo periodo una creazione in terracotta chiamata “Il Corvo” viene riprodotta in marmo e argento e deve anche far fronte ad una richiesta di 120 riproduzioni uguali in bronzo, che gli fanno apprezzare il successo ed una temporanea agiatezza.
Nel 1889 all’Esposizione della città di Roma la sua opera “Ad maiorem Dei gloriam”, anche se non vinse il premio in denaro e il diploma d’onore perché la giuria ‘aveva dato credito alle malignità ’, gli diede una notorietà internazionale.
Cifariello, fin da giovanissimo, ha avuto un successo costante con l’altro sesso e una sera del 1890 all’Esedra di Roma fa la conoscenza con la sciantosa Blanche De Mercy, in realtà si trattava di Maria De Browne, una cantante di 17 anni che, nata a Lione, accompagnata dalla madre Elisabetta di 53 anni, cercava di realizzarsi sul palcoscenico non dimenticando che per vivere ci vuole anche sostanza.
Ora proverò in un solo periodo a raccontarvi una storia cui Mascellaro dedica oltre 100 pagine ‘trascinanti’ che non si possono narrare, ma che meritano di essere lette perché invitano il lettore a riflessioni che ‘lambiscono’ l’ambito personale.
La storia d’amore, culminata nel matrimonio, ma andata avanti fra continue liti e presunte, spesso veritiere, scenate di gelosia termina nella pensione Mascotte di Napoli dove lo scultore uccide la moglie con cinque colpi di pistola. Il racconto di Mascellaro è narrato come un giallo in cui i protagonisti recitano fin dall’inizio un copione cui tutti devono attenersi… affinchè la giustizia, quella che parteggia quasi sempre per quello che appare il più ‘debole’, trionfi: proprio il caso di dire che al mondo ciascuno sta male, ma nessuno così male come il ‘giusto’, che non sempre è il debole.
Il processo trova un indiscusso protagonista in Cifariello che domina la scena con grande teatralità assistito da un principe del foro dell’epoca: l’avvocato Manfredi.
In realtà quando il 27 luglio del 1908 la Corte di Cassazione, accogliendo una richiesta della parte civile, sospende il processo per legittima suspicione (istituto del diritto processuale penale, la rimessione del processo, è disciplinata dagli artt. 45 e ss. del Codice di Procedura Penale, per cui si sposta la sede del dibattimento perché si ritiene che lo svolgimento della causa possa essere influenzata da circostanze e fattori ambientali) rinviandolo presso la Corte di Assise di Campobasso, la reazione di Cifariello fu violentissima all’interno della gabbia in cui era rinchiuso: «… un assassinio, un’infamia, fango, fango. Non vi è più giustizia per me!».
Il 30 settembre del 1908 riprende il processo a Campobasso, dove la sala delle udienze viene allestita nell’orfanotrofio De Capua, con l’integerrimo magistrato Giannattasio come presidente della Corte: tutti i 12 giurati prescelti chiedono di essere esonerati dall’incarico, ma vengono richiamati all’ordine dal presidente: «L’ufficio al quale siete chiamati è un dovere cui non potete sottrarvi». Primo attore indiscusso l’avvocato Gaetano Manfredi, la cui eloquenza forbita ma bonaria attira simpatie per lo scultore Cifariello. Manfredi avvocato non è dello stesso parere di Schopenhauer: «La vera eloquenza consiste nel dire il necessario e soltanto il necessario» e anche nell’interrogatorio del presunto amante della moglie dello scultore, l’avvocato Soria, dimostra fermezza, coerenza, rispetto e imparzialità pur mettendolo sovente in difficoltà con la sua abilità professionale.
Come sempre avviene poi nella vita quotidiana sono le inezie a cambiare il corso degli eventi: il pubblico ministero Carelli nella sua arringa conclusiva, da galantuomo, precisa: «Io magistrato dico che Filippo Cifariello non ha alcuna scusante del suo delitto, ma voi Giudici popolari, voi che siete liberi nella vostra coscienza, voi che potete vagliare e considerare tutta la vita dell’accusato, potete informare il vostro giudizio ad un sentimento di pietà ».
« Siete convinti che Filippo Cifariello nel momento in cui ha ucciso la moglie era in stato d’infermità mentale tale da togliergli la coscienza e la libertà dei propri atti?» questo il quesito proposto alla giuria popolare che, il 23 dicembre 1908, dopo appena 10 minuti di Camera di Consiglio rimanda in libertà Filippo Antonio Cifariello: sette SI, tre NO e due schede bianche.
Un anno dopo l’avvocato Manfredi si suicida con un colpo di pistola al cuore, probabilmente per patologie personali: Cifariello gli dedicherà un busto bellissimo.
A Roma lo scultore sposa nel 2014 un ragazza che frequenta l’Università di Napoli per laurearsi in Storia dell’Arte, 28 anni di differenza dividono gli sposi. Evelina Fabi, questo il suo nome, muore un mese dopo per un incidente domestico.
Nel 1923 Cifariello ci riprova con la finlandese Signe Stinnis, ma la signora, madre di due figli, sparisce presto dalla sua vita. Nel 1925 sposa la giovanissima tedesca Anna Marzell: l’anno successivo nasce il suo primo figlio di nome Filippo e quattro anni dopo Antonio, quello famoso come attore e che muore in un incidente aereo a soli 38 anni. Il suo sogno di famiglia tradizionale è realizzato, ma non gli basta per cui nel 1936 si toglie la vita nel suo studio al Vomero.
Che Cifariello fosse un uomo di carattere, deciso a tutto lo dimostra l’episodio della statua di Umberto I a cavallo, ubicata nella piazza omonima dedicata al re nella città di Bari. Lo scultore per quella maestosa statua aveva lavorato cinque anni e, ad un mese dall’inaugurazione fissata per l’11 giugno 1905, non gli era stato corrisposto nessun acconto di quanto pattuito. Forse anche irritato dalla risposta del sindaco Lembo che, alle pressanti richieste dello scultore gli risponde amico mio: «… garantisci il tuo avere come meglio credi». Quella sera stessa Cifariello, aiutato da alcuni lavoratori con un carretto, si reca sotto il monumento munito di una scala alta e, con perizia, smonta la coda del cavallo, la sciabola e il fodero che, deposti in una botte, vengono nascosti in un deposito dell’odierna via Capruzzi. In breve la notizia diventa di dominio pubblico e la città ‘ride’: i soldi vengono recuperati, lo scultore accontentato e i pezzi ritornano al loro posto. In questo lasso di tempo lo scultore aveva anche stilato un contratto fittizio con l’officina del fonditore del monumento Bastianelli, il quale riteneva ‘di meritare di più’ per il lavoro svolto: discussione sfociata in un litigio che degenerò. Diciamo che sul versante economico Cifariello fosse poco disponibile a trattare e questa in tribunale fu la tesi della mamma della ‘sciantosa’ uccisa: la figlia era costretta a lavorare perché lo scultore era di manica stretta. A questo punto merita di essere riportato integralmente quello che ha scritto la professoressa Gelao, non ieri, ma due lustri or sono: «… a proposito del quale non vorrei apparire fuori dal coro difendendo a spada tratta l’effervescente “subrettina”, e non solo per l’ovvia ragione - mai divenuta così evidente come lo è oggi, in cui a ricordarcelo è purtroppo la cronaca quotidiana - che il cosiddetto “femminicidio” è indice del più bieco primitivismo culturale. Non è soltanto questo. Nel caso specifico ritengo si possa individuare in Cifariello una colpa aggiuntiva e maggiore, che coinvolge proprio il background dello scultore, la sua mentalità più sedimentata». Ma la studiosa va in soccorso del nostro scultore aggiungendo: « L’equivoco e l’errore di Cifariello stanno a mio parere proprio nel non aver saputo o voluto valutare sin dagli inizi l’abisso che intercorreva tra due prospettive di vita, quella sua e quella di Maria, e nell’aver voluto normalizzare e irreggimentare una donna di costumi sicuramente inusuali per un’epoca in cui il modello femminile ideale della buona borghesia era quello della moglie fedele e accondiscendente, madre ed educatrice perfetta, pronta a sopportare tutte le irrequietezze del consorte». La Gelao che, conviene ricordarlo, nel 1990 ci ha rivelato l’esistenza dello scultore Stefano Pugliese, più noto come Stefano da Putignano, con una meritoria pubblicazione dal titolo «Stefano da Putignano nella scultura pugliese del Rinascimento (SCHENA Editore), aggiornata e approfondita nel 2020 con « Stefano da Putignano “virtuoso” scultore del Rinascimento» (ADDA Editore), conclude il suo intervento con un encomio che il Cifariello, ovunque sia finito, non potrà non gradire: «…quali che siano le responsabilità di uomo, fu un autentico, grandissimo artista».
Carissimo Nicola, quali che siano le tue responsabilità in ambito “Gazzetta del Mezzogiorno”, in questi ultimi 10 anni ti sei rivelato un ottimo divulgatore dei talenti pugliesi, per cui non posso sprecare due parole per il ragazzo nativo di Gravina di Puglia, ma una sola: continua!