VITTORIO POLITO – A trent’anni dalla scomparsa del grande amico
Giovanni Panza (1916-1994), mi piace ricordarlo ad amici, estimatori e
cultori del dialetto barese, argomento che lo interessava particolarmente
e per il quale ha scritto poesie e saggi che lo hanno immortalato per
sempre.
Giovanni Panza, laureato in Giurisprudenza, fu dirigente dell’Ispettorato Provinciale dell’Alimentazione di Bari e coordinatore dei Servizi dell’Alimentazione della Regione Puglia. Collaborò al periodico “Il Confratello” con articoli e poesie in lingua e in dialetto. Il reale interesse di Panza, è stato il dialetto al quale era molto affezionato, come testimonia la sua prima pregevole pubblicazione “La checine de nononne - U mangià de le barise d’aiire e de iosce” (Schena), diffusa in diverse edizioni.
Trattasi di un volume bilingue (italiano e dialetto), un ricettario sul modo di mangiare dei baresi di ieri e di oggi, che dovrebbe essere presente in ogni casa. Nel bel volume si parla, tra l’altro, ‘de le feste terribele’, cioè le festività più importanti dell’anno, come Natale, Capodanno e Pasqua, in occasione delle quali si prepara un lungo corteo di piatti in perfetto ossequio alle tradizioni culinarie cittadine.
Va evidenziato nel testo il senso della baresità, l’esaltazione di tutto ciò che rappresenta l’inventiva, la fantasia, l’amore dei baresi per la cucina, intesa sia come modo di preparare le vivande, sia come centro materiale e spirituale al cui calore si forma e progredisce la famiglia.
Panza, che definiva a torto i suoi scritti ‘scemetùdene de nu schecchiate’ (sciocchezzuole di uno scriteriato), non si è limitato solo al libro citato. Egli ha scritto ‘Cazzavune’ (Schena), libro di poesie bilingue, nel quale spazia con i suoi versi sulla sua amata Bari, sui pensionati, sul primo amore, sul dialetto, esprimendo tutto il suo attaccamento per il linguaggio degli avi con il quale si possono esprimere anche i più riposti sentimenti. Panza ha scritto anche ‘La uerre de Troia - Iliade e Odissea chendate a la pobblazione’ (Iliade e Odissea narrata al popolo), scritta anche questa in italiano e dialetto barese (Ed. Unione Tipografica). Forse perché Omero pare rappresenti una delle fonti da cui risale il nostro linguaggio, per certe citazioni come Tallone d’Achille, Cavallo di Troia, Tela di Penelope, ecc.
Il capolavoro di Panza resta il libro ‘Mia Moglie’ (Ed. Uniongrafica Corcelli), fuori commercio, donato a parenti ed amici, nel quale egli, come in un testamento spirituale, esprime, attraverso liriche e poesie e immagini, il ricordo, il suo amore, l’affetto ed il rispetto per la compagna della vita.
Anche il teatro ha interessato Giovanni che ha scritto, tra l’altro, la farsa “La Capasedde” (Il vaso di Pandora), che nella mitologia greca rappresenta il leggendario contenitore di tutti i mali che si riversarono nel mondo dopo la sua apertura e ripresa da Francesco De Martino nel suo corposo testo “Puglia Mitica” (Levante). Un lavoro, quello di De Martino, arduo per la difficoltà di recuperare letteratura e arte mitologica, ma soprattutto per la vastità della «tanta abundantia», di una produzione rivelatasi inaspettatamente corposa, marginale e sommersa, dispersa in biblioteche, un patrimonio ibrido, fatto di beni disparati con grandi e piccoli gioielli messi insieme a molta bigiotteria, ma prezioso e ingiustamente dimenticato da chi ci ha preceduto. Una farsa quasi mitologica dell’edizione critica basata sulla copia d’autore, messa a disposizione da Emanuele Panza e curata da chi scrive in collaborazione con Rosa Lettini Triggiani e Giuseppe Gioia. Si parla del poema epico nel quale si susseguono personaggi mitologici come Saturno (u uattane), Giove o Cronos (u figghie), Pandora chiamata Eva (la uagnedde), Caino (Coline), Abele (Cilluzze), e tanti altri. Ma provate a immaginare gli interpreti di certe personalità parlare il nostro bel dialetto come, ad esempio, Eva che chiudendo la ‘capasedde’ si rivolge ad Adamo con questa frase: «Fa mbrime a cresce cà nù senze de te non petime cambà. Crisce figghie; e acquanne sì cresciute, tanne jisse pure tu da la capasedde e va sop’o munne. Fa accapì a l’emene ca de tutte le diaue ca stevene jind’a la capasedde, cudde ca conde chiù de tutte sì asselute tu: la speranza». (Fa presto a crescere che noi senza di te non possiamo vivere. Cresci figlio e quando sarai cresciuto, allora esci pure dalla “capasedde” e va sulla terra. Fa capire agli uomini che fra tutti i diavoli che stavano nella “capasedde”, quello che conta più di tutti sei solamente tu: la speranza).
Come estimatori del dialetto e delle tradizioni è doveroso dare atto a Giovanni Panza del suo particolare attaccamento a Bari, ai suoi valori storici, morali e la tendenza a mettere in risalto la lingua dei nostri padri, il dialetto appunto, finalizzato a facilitare la comunicazione ed a far rivivere nel tempo usi e costumi della nostra gente.
Giovanni Panza, laureato in Giurisprudenza, fu dirigente dell’Ispettorato Provinciale dell’Alimentazione di Bari e coordinatore dei Servizi dell’Alimentazione della Regione Puglia. Collaborò al periodico “Il Confratello” con articoli e poesie in lingua e in dialetto. Il reale interesse di Panza, è stato il dialetto al quale era molto affezionato, come testimonia la sua prima pregevole pubblicazione “La checine de nononne - U mangià de le barise d’aiire e de iosce” (Schena), diffusa in diverse edizioni.
Trattasi di un volume bilingue (italiano e dialetto), un ricettario sul modo di mangiare dei baresi di ieri e di oggi, che dovrebbe essere presente in ogni casa. Nel bel volume si parla, tra l’altro, ‘de le feste terribele’, cioè le festività più importanti dell’anno, come Natale, Capodanno e Pasqua, in occasione delle quali si prepara un lungo corteo di piatti in perfetto ossequio alle tradizioni culinarie cittadine.
Va evidenziato nel testo il senso della baresità, l’esaltazione di tutto ciò che rappresenta l’inventiva, la fantasia, l’amore dei baresi per la cucina, intesa sia come modo di preparare le vivande, sia come centro materiale e spirituale al cui calore si forma e progredisce la famiglia.
Panza, che definiva a torto i suoi scritti ‘scemetùdene de nu schecchiate’ (sciocchezzuole di uno scriteriato), non si è limitato solo al libro citato. Egli ha scritto ‘Cazzavune’ (Schena), libro di poesie bilingue, nel quale spazia con i suoi versi sulla sua amata Bari, sui pensionati, sul primo amore, sul dialetto, esprimendo tutto il suo attaccamento per il linguaggio degli avi con il quale si possono esprimere anche i più riposti sentimenti. Panza ha scritto anche ‘La uerre de Troia - Iliade e Odissea chendate a la pobblazione’ (Iliade e Odissea narrata al popolo), scritta anche questa in italiano e dialetto barese (Ed. Unione Tipografica). Forse perché Omero pare rappresenti una delle fonti da cui risale il nostro linguaggio, per certe citazioni come Tallone d’Achille, Cavallo di Troia, Tela di Penelope, ecc.
Il capolavoro di Panza resta il libro ‘Mia Moglie’ (Ed. Uniongrafica Corcelli), fuori commercio, donato a parenti ed amici, nel quale egli, come in un testamento spirituale, esprime, attraverso liriche e poesie e immagini, il ricordo, il suo amore, l’affetto ed il rispetto per la compagna della vita.
Anche il teatro ha interessato Giovanni che ha scritto, tra l’altro, la farsa “La Capasedde” (Il vaso di Pandora), che nella mitologia greca rappresenta il leggendario contenitore di tutti i mali che si riversarono nel mondo dopo la sua apertura e ripresa da Francesco De Martino nel suo corposo testo “Puglia Mitica” (Levante). Un lavoro, quello di De Martino, arduo per la difficoltà di recuperare letteratura e arte mitologica, ma soprattutto per la vastità della «tanta abundantia», di una produzione rivelatasi inaspettatamente corposa, marginale e sommersa, dispersa in biblioteche, un patrimonio ibrido, fatto di beni disparati con grandi e piccoli gioielli messi insieme a molta bigiotteria, ma prezioso e ingiustamente dimenticato da chi ci ha preceduto. Una farsa quasi mitologica dell’edizione critica basata sulla copia d’autore, messa a disposizione da Emanuele Panza e curata da chi scrive in collaborazione con Rosa Lettini Triggiani e Giuseppe Gioia. Si parla del poema epico nel quale si susseguono personaggi mitologici come Saturno (u uattane), Giove o Cronos (u figghie), Pandora chiamata Eva (la uagnedde), Caino (Coline), Abele (Cilluzze), e tanti altri. Ma provate a immaginare gli interpreti di certe personalità parlare il nostro bel dialetto come, ad esempio, Eva che chiudendo la ‘capasedde’ si rivolge ad Adamo con questa frase: «Fa mbrime a cresce cà nù senze de te non petime cambà. Crisce figghie; e acquanne sì cresciute, tanne jisse pure tu da la capasedde e va sop’o munne. Fa accapì a l’emene ca de tutte le diaue ca stevene jind’a la capasedde, cudde ca conde chiù de tutte sì asselute tu: la speranza». (Fa presto a crescere che noi senza di te non possiamo vivere. Cresci figlio e quando sarai cresciuto, allora esci pure dalla “capasedde” e va sulla terra. Fa capire agli uomini che fra tutti i diavoli che stavano nella “capasedde”, quello che conta più di tutti sei solamente tu: la speranza).
Come estimatori del dialetto e delle tradizioni è doveroso dare atto a Giovanni Panza del suo particolare attaccamento a Bari, ai suoi valori storici, morali e la tendenza a mettere in risalto la lingua dei nostri padri, il dialetto appunto, finalizzato a facilitare la comunicazione ed a far rivivere nel tempo usi e costumi della nostra gente.
U CAVADDE DE TAUE
Da “La Uerre di Troia”, di G. Panza, Ed. Unione Tipografica, Bari 1990
Dope tand’anne de brutte patemiinde;
stanghe, scombortate pe le tande lamiinde,
le griisce penzorne a nu marchingegne
pe levarse mò dananze cudde mbegne.
Che ddò strascedde e quatte taue d’auì
facerne nu cavadde granne adacsì.
Danande a la meragghie u pertòrene
addò com’a nu cetrone u lassòrene.
Pe sapè ceccose mò veleve disce
cudde sagramende fatte da le nemisce,
a trademinde le griisce facerne capì
ca jieve nu vote offerte a l’Iddì
p’esse agevolate a fernì la uerre
e a partì finalmende da chedda terre.
Mbesce, a cudde cavadde jind’a la vende,
le tradeture mettèrene le combattende
e facenne le mosse de fescirasinne
che l’arme, le fèmene, le piccinine,
le mbame s’erne aschennute a la veldate
aspettanne tutte pronde che le seldate.
Le troiane, no nzapenne come chembenà:
ce u cavadde fa trasì o a mmare scettà
o de scì a vedè ceccose steve jinde
(nguocchedune penzò a nu trademiinde)
a cusse punde seccedì nu fatte strane:
avèvene fatte priggioniire nu cristiane;
chiine de livete, ecchie ammelengiate
ca chiangenne gredò ch’ere state mazziate
da Ulisse, nu mbamone traditore
ca veleve vendecà nu fatte d’onore.
Cudde maleditte se chiamave Sinone
e sapì fenge bbuene a fa u mbregghione
e che ttande ngingiringì e ngingiringià
convingì le troiane u cavadde a pertà
mmenz’a la chiazza chiù granne de la città
e teneue ddà per le griisce allondanà.
Aveve vogghie a chiange e profetà
Cassandra pe le troiane fa arragionà:
nesciune a le parole sò crenzeve
percè u dDì Apollo adacsì veleve.
A la notte, ca tutte stèven’a ddorme,
da la vende du cavadde, comborme
a le piane da Ulisse chengegnate,
assèrene le seldate chemmannate
da cudde rre de Itaca, nu velpone,
ca de Troia facì nu sule beccone
Chedde ca nonn’avèvene fatte pe tand’anne
forte uerriire, u facì iune cu nganne.