NICOLA RICCHITELLI - Oggi, 18 aprile, Enrico Ruggeri porta il suo acclamato "Tour 2024" al Teatro "Italia" di via Kennedy 1 a Gallipoli. In questa occasione speciale, abbiamo avuto il privilegio di scambiare qualche battuta con l'artista milanese, uno dei più grandi cantautori che la musica italiana possa vantare.
La nostra conversazione ha attraversato i quasi cinquant'anni di carriera di Ruggeri, durante i quali ha pubblicato ben 32 album, tra cui due album dal vivo e due raccolte. Abbiamo toccato diverse tappe significative della sua carriera, tra cui i trionfi sul palco dell'Ariston al Festival di Sanremo, dove ha trionfato nel 1987 e nel 1993.
Sulle pagine del Giornale di Puglia accogliamo Enrico Ruggeri.
Il tuo tour arriva nelle prossime ore a Gallipoli – Teatro Italia – dove porti la tua storia musicale lunga più di cinquant’anni. Cosa si prova dopo così tanto tempo nel ritrovarsi ancora qui oggi?
R: «Innanzitutto tanto piacere. Man a mano che passano gli anni, il piacere di fare concerti aumenta sempre più – forse perché vi è la consapevolezza di avere meno concerti davanti per forza di cose - e quindi te li godi ancora di più. C'è il piacere di ritrovare amici che ti seguono da decenni, che magari nel frattempo prima erano fidanzati, adesso vengono coi figli. Insomma è un rapporto molto stretto con le persone che mi seguono, per cui è la parte più piacevole del mio lavoro».
Chi sono oggi i tanti che ti seguono?
Il tuo tour arriva nelle prossime ore a Gallipoli – Teatro Italia – dove porti la tua storia musicale lunga più di cinquant’anni. Cosa si prova dopo così tanto tempo nel ritrovarsi ancora qui oggi?
R: «Innanzitutto tanto piacere. Man a mano che passano gli anni, il piacere di fare concerti aumenta sempre più – forse perché vi è la consapevolezza di avere meno concerti davanti per forza di cose - e quindi te li godi ancora di più. C'è il piacere di ritrovare amici che ti seguono da decenni, che magari nel frattempo prima erano fidanzati, adesso vengono coi figli. Insomma è un rapporto molto stretto con le persone che mi seguono, per cui è la parte più piacevole del mio lavoro».
Chi sono oggi i tanti che ti seguono?
R: «Sono persone che viaggiano controcorrente, sono persone che badano alla sostanza, per cui naturalmente
come ti dicevo sono cresciute, magari prima quando avevano vent'anni venivano a dieci concerti in una
tournée, magari viaggiavano l'Italia, adesso chissà, hanno figli, impegni, e magari vengono solo quando vado
in zona, però è proprio un bel popolo, sono molto orgoglioso di quelli che vengono a vedermi in concerto».
La musica italiana negli ultimi anni ha subito inevitabilmente dei cambiamenti, ci sono degli stili che si
sono fatti strada, tu stesso all'epoca con “I Decibel” sei stato fautore di un nuovo modo di far musica.
Come vivi questo stare dentro a questa rivoluzione?
R: «È inevitabile che le cose cambino. Mi sembra che in questi anni la parte letteraria della musica sia passata in secondo piano. Se si pensa alla tradizione cantautorale italiana, se si pensa che i testi erano dei manifesti, se si pensa anche alla musica più leggera – Battisti ad esempio che viene cantato ancora adesso in spiaggia – se si pensa a De Gregori e a quelli della mia generazione. Oggi mi sembra che la trovata sia più importante dell'idea».
Possiamo dire che, in qualche modo, si stia scavando un vuoto in tal senso? All’orizzonte non vedo più gli Enrico Ruggeri ma anche i De Gregori di una volta…
R: «Non si fa musica per fare soldi subito, Giorgio Gaber diceva “c'è chi preferisce passare alla storia e chi preferisce passare alla cassa”. E oggi mi sembra che tutti cerchino di passare alla cassa più che alla storia».
Come vivi questo stare dentro a questa rivoluzione?
R: «È inevitabile che le cose cambino. Mi sembra che in questi anni la parte letteraria della musica sia passata in secondo piano. Se si pensa alla tradizione cantautorale italiana, se si pensa che i testi erano dei manifesti, se si pensa anche alla musica più leggera – Battisti ad esempio che viene cantato ancora adesso in spiaggia – se si pensa a De Gregori e a quelli della mia generazione. Oggi mi sembra che la trovata sia più importante dell'idea».
Possiamo dire che, in qualche modo, si stia scavando un vuoto in tal senso? All’orizzonte non vedo più gli Enrico Ruggeri ma anche i De Gregori di una volta…
R: «Non si fa musica per fare soldi subito, Giorgio Gaber diceva “c'è chi preferisce passare alla storia e chi preferisce passare alla cassa”. E oggi mi sembra che tutti cerchino di passare alla cassa più che alla storia».
Il tuo ultimo album si intitola “La Rivoluzione”, con un brano che ci gasa tantissimo: “Non
sparate sul cantante”. Quando l'abbiamo ascoltato mi sono detto “Caz.., il rock esiste ancora”. Vi è in esso qualche
tratto autobiografico?
R: «È un brano con cui spesso apro i miei concerti, piace molto anche a me. Autobiografico? Meno di altri... Con l'avvento del web tutti parlano a tutti, tutti insultano tutti, tutti esprimono pareri, diciamo che in questo brano c’è dell’ironia, una volta nel far west si diceva “non sparate sul pianista”, adesso tutti sparano addosso a tutti, compresi i cantanti».
Quante volte hanno 'sparato' su di te in carriera?
R: «La critica tutto sommato è stata abbastanza benevola. Forse. Qualche odiatore seriale? Sono uno che prende posizioni. Sono uno che si espone, che pensa. Una cosa non si nasconde. In quel caso, un po’ ti sparano. Però se hai un'idea devi dirla. E soprattutto quelli che vogliono piacere a tutti sono quelli che poi non dicono niente per evitare di sbagliare…».
Nel 2002 a Sanremo cantasti “Primavera a Sarajevo”, cantavi appunto di una primavera, ma hai raccontato anche una guerra. Vi erano delle ceneri, c'era una vita che resisteva. All'orizzonte noi abbiamo il fronte ucraino e abbiamo un altro fronte che si sta aprendo in Medio Oriente. Tu vedi oggi una primavera…?
R: «Me lo auguro ma mi sembra un po’ più difficile. Quando si parla di Sarajevo - per motivi storici – parliamo di uno stato che si era frazionato in 1000 pezzi e quindi questi pezzi combattevano tra di loro, ma alla fine tutti volevano occidentalizzarsi, volevano crescere. Alla fine una soluzione si è trovata, oggi mi sembra un pochino più complicato - soprattutto se si parla di Palestina - dove alla fine in un modo o nell'altro si combatte».
Un tuo brano iconico del tuo repertorio è sicuramente “Il portiere di notte”: quel portiere ha un nome e cognome?
R: «Quel brano fu è un volo di fantasia, in realtà il portiere di notte della canzone è un portiere di un albergo scadente, di malaffare, - per fortuna vado in alberghi un po’ più belli - però ho immaginato la storia, l’arrivare di notte, ritrovarsi qualcuno che ti organizza la vita e ti dice buongiorno, prego, vada nella 216, le preparo una tisana. Ho esagerato col pensiero e ho pensato “ma pensa se questo portiere si innamorasse di una prostituta e non potesse neanche dirglielo perché quella manco lo vede”? Da lì è nata la canzone».
Festival di Sanremo: hai calcato il palco dell’Ariston tante volte, lo hai vinto due volte, ma negli ultimi anni è stato quasi rivoluzionato. Avresti potuto partecipare in qualche modo a quello che è stato il festival negli ultimi anni?
R: «Credo di no. Mi auguro che prima o poi qualcuno faccia un festival compatibile con le mie caratteristiche. Però se i big sono quelli che fanno i numeri su Spotify e non quelli che hanno carriere decennali, mi sarei sentito un po’ a disagio, francamente».
Da sempre tra radio e televisione hai sposato progetti in cui hai raccontato personaggi – su Radio 24 con “Il falco e il gabbiano” e su rai 2 con “Gli occhi del musicista” - dal punto di vista teatrale in futuro vi potrebbe essere un progetto che misceli queste esperienze?
R: «Ma sì, a me piace raccontare storie agli altri. Lo faccio con la canzone, ma l'ho fatto anche con i libri, con la radio, con la televisione per cui spero di raccontare altre storie».
R: «È un brano con cui spesso apro i miei concerti, piace molto anche a me. Autobiografico? Meno di altri... Con l'avvento del web tutti parlano a tutti, tutti insultano tutti, tutti esprimono pareri, diciamo che in questo brano c’è dell’ironia, una volta nel far west si diceva “non sparate sul pianista”, adesso tutti sparano addosso a tutti, compresi i cantanti».
Quante volte hanno 'sparato' su di te in carriera?
R: «La critica tutto sommato è stata abbastanza benevola. Forse. Qualche odiatore seriale? Sono uno che prende posizioni. Sono uno che si espone, che pensa. Una cosa non si nasconde. In quel caso, un po’ ti sparano. Però se hai un'idea devi dirla. E soprattutto quelli che vogliono piacere a tutti sono quelli che poi non dicono niente per evitare di sbagliare…».
Nel 2002 a Sanremo cantasti “Primavera a Sarajevo”, cantavi appunto di una primavera, ma hai raccontato anche una guerra. Vi erano delle ceneri, c'era una vita che resisteva. All'orizzonte noi abbiamo il fronte ucraino e abbiamo un altro fronte che si sta aprendo in Medio Oriente. Tu vedi oggi una primavera…?
R: «Me lo auguro ma mi sembra un po’ più difficile. Quando si parla di Sarajevo - per motivi storici – parliamo di uno stato che si era frazionato in 1000 pezzi e quindi questi pezzi combattevano tra di loro, ma alla fine tutti volevano occidentalizzarsi, volevano crescere. Alla fine una soluzione si è trovata, oggi mi sembra un pochino più complicato - soprattutto se si parla di Palestina - dove alla fine in un modo o nell'altro si combatte».
Un tuo brano iconico del tuo repertorio è sicuramente “Il portiere di notte”: quel portiere ha un nome e cognome?
R: «Quel brano fu è un volo di fantasia, in realtà il portiere di notte della canzone è un portiere di un albergo scadente, di malaffare, - per fortuna vado in alberghi un po’ più belli - però ho immaginato la storia, l’arrivare di notte, ritrovarsi qualcuno che ti organizza la vita e ti dice buongiorno, prego, vada nella 216, le preparo una tisana. Ho esagerato col pensiero e ho pensato “ma pensa se questo portiere si innamorasse di una prostituta e non potesse neanche dirglielo perché quella manco lo vede”? Da lì è nata la canzone».
Festival di Sanremo: hai calcato il palco dell’Ariston tante volte, lo hai vinto due volte, ma negli ultimi anni è stato quasi rivoluzionato. Avresti potuto partecipare in qualche modo a quello che è stato il festival negli ultimi anni?
R: «Credo di no. Mi auguro che prima o poi qualcuno faccia un festival compatibile con le mie caratteristiche. Però se i big sono quelli che fanno i numeri su Spotify e non quelli che hanno carriere decennali, mi sarei sentito un po’ a disagio, francamente».
Da sempre tra radio e televisione hai sposato progetti in cui hai raccontato personaggi – su Radio 24 con “Il falco e il gabbiano” e su rai 2 con “Gli occhi del musicista” - dal punto di vista teatrale in futuro vi potrebbe essere un progetto che misceli queste esperienze?
R: «Ma sì, a me piace raccontare storie agli altri. Lo faccio con la canzone, ma l'ho fatto anche con i libri, con la radio, con la televisione per cui spero di raccontare altre storie».