(il Principe Giovannantonio Orsini del Balzo in una raffigurazione d'epoca) |
ROBERTO BERLOCO. ALTAMURA - Altamura. E’ pacifico. La Storia di una città è composta da tante storie che talvolta collidono, talaltra s’intrecciano, talaltra ancora corrono parallele senza mai incontrarsi. Per la più parte, invero, storie “minime”, come piaceva dire al compianto Fabio Perinei, riferendosi al buon popolo altamurano che ebbe a rappresentare degnamente tra i banchi del Parlamento. Storie, cioè, fatte di quotidianità e accumunate dal denominatore del duro lavoro, dei sacrifici resi per la sopravvivenza della famiglia e per il futuro dignitoso della figliolanza.
In quota di minoranza, stanno invece storie costituite di atti eccezionali, solitamente destinati a suscitare lo scalpore necessario ad esser ricordati nei libri di storia, sia che portino con sé un valore morale, sia che, al contrario, esprimano un disvalore. E questa che si ha in animo di narrare, è proprio una di queste.
Prima, però, di dipanare la matassa di una vicenda che, a dispetto d’un finale apparentemente glorioso o felice, ebbe e conservò, sino all’ultimo suo istante, un violento timbro drammatico, una premessa corre d’obbligo.
In epoca medievale, nella sostanziale assenza d’uno Stato di Diritto, la commissione di reati non andava incontro sempre alla medesima foce di pena. E non perché il fiume delle sentenze di condanna potesse anche sviare verso l’alveo della concessione della grazia, che spettava solo al Sovrano o al Signore che disponesse di un potere pieno sul proprio feudo.
Un’altra premessa. Dopo gli ultimi respiri di Roma, soprattutto con lo stanziamento definitivo dei Longobardi nella Penisola, era stato introdotto l’uso di distinguere tra tre principali fasce sociali: i nuovi dominatori, le cui classi aristocratica e militare godevano dei più ampi privilegi; gli uomini liberi, per lo più tra i precedenti possidenti latini e quello che poteva chiamarsi ceto borghese; infine, la grande massa di villici o di umili, che rappresentavano la gran parte della popolazione, alla quale non veniva riconosciuto alcun diritto, a parte quello di respirare e di fare da forza lavoro, soprattutto nelle campagne. Questa suddivisione essenziale di categorie si perpetuò sostanzialmente inalterata nei secoli successivi di tutto il Medioevo, con l’unica eccezione dell’importanza crescente assunta dagli ecclesiastici, che, soprattutto nella veste di alti Prelati, potevano fregiarsi di prerogative parificabili, se non superiori, a quelli dei Nobili.
E’ in un tale contesto, che va realizzato come ciò che fosse possibile a chi avesse legittimamente il potere, o anche una fetta di questo, non lo fosse a chi non ne avesse o ad esso fosse soggetto.
Ancora una terza ed ultima premessa. Quella delle più strette circostanze temporali, attestabili intorno alla seconda metà del XV secolo, durante la fase di epilogo del contrasto tra Angioini e Aragonesi nel Regno di Napoli. Da oltre un secolo, i loro eserciti si contendono il potere sul territorio, anche con l’ausilio di mercenari stranieri o di contingenti di feudatari locali, che debbono decidere da che parte stare, se con il Francese o lo Spagnuolo.
Tra questi, ve n’era uno particolarmente potente. Il suo nome era Giovannantonio Orsini del Balzo, detto “Giannantonio”, Principe di Taranto e Signore di Altamura, ma con possedimenti e castelli che andavano ben oltre le giurisdizioni di queste due città.
Fedele all’usanza italica pre-unitaria di schierarsi con uno dei dominatori concorrenti esteri, Orsini aveva scelto la fazione iberica, e, a questa, era stato leale per diverso tempo. O, almeno, fino a che il monarca spagnuolo, Re Ferdinando, ebbe a negargli il ducato di Venosa, che avrebbe dovuto spettargli per diritto di successione dopo la morte del fratello. L’evento scatenò in lui un’orgogliosa ripicca, che si manifestò nel cambio di campo, il quale, di colpo, divenne quello francese. Ed è da questo momento che l’Orsini decade dalla fiducia regale che, in seguito, cercherà di riconquistare ambiguamente, e, comunque, senza mai riuscirvi.
Paolo Tricarico, colui che a quegli si lega come il carnefice con la propria vittima, era un suo “paggio”. Chi scrisse di lui, lo riconduce alla classe dei popolani. A parte il nome e il cognome e che fosse sostanzialmente un dipendente del Principe in questione, di questo Altamurano dell’epoca non si hanno però altre notizie, che riguardino, ad esempio, l’aspetto fisico, le sue relazioni familiari o qualche aneddoto che possa produrre un’idea del suo carattere o delle sue abitudini. Non si conosce neanche quello che fosse il suo grado di cultura, vale a dire anche se sapesse leggere e scrivere. Ma, d’altra parte, se la storiografia si è disinteressata di questi altri dati, una ragione deve esserci stata, e, probabilmente, è da ricercare in quel che il Tricarico sarebbe divenuto, vale a dire un uomo socialmente assai più rilevante di quel che era stato.
Nella ricostruzione del cronachista altamurano Domenico Santoro, secondo una lettura che fa leva su documentazioni d’archivio alle quali era in grado di accedere, ma anche sopra una memoria orale che, ai suoi tempi, sul finire del XVII secolo, doveva essere ancora viva dentro Altamura, i fatti mossero dall’invio di due legati da parte del Principe Giannantonio verso Roma, con il compito di riferire determinati messaggi al Pontefice. I messaggeri si chiamavano Guidano di San Pietro in Galatina e Antonio Ayello, due patrizi minori, se così può dirsi, col secondo che figura anche come Arciprete di Altamura.
Il viaggio della coppia, però, prende una pausa a Barletta. Qui, i due sono trattenuti da Re Ferdinando e persuasi a tornare verso Altamura, forse dopo esser stati convinti a rivelare il contenuto della loro ambasceria. Quando l’Orsini seppe che il suo ordine era stato disatteso, brontolò che avrebbe fatto mozzare il capo a quei due infedeli legati. Caso volle che, in quel momento, fosse lì presente quel suo servitore, quel tale Tricarico che, forse, aveva pure compiti di guardia del corpo del Principe. E caso volle che proprio egli andasse a riferire quanto ascoltato ai due dignitari, i quali, per tutta risposta, persuasero il Tricarico ad ammazzare Giannantonio nella notte di quel giorno stesso.
Con buona probabilità, nello scegliere proprio lui, oltre al fatto che fosse al servizio della Famiglia principesca di Altamura, e, cioè, che fosse in intimità col suo titolare, dovette anche giocare una certa rassicurazione proveniente dalle sue doti fisiche, tali da convincere i due mandanti, per vista d’occhio, ad un’operazione talmente rischiosa. Si può dunque immaginare, ma solo questo, che disponesse di una forza fisica tale da sopraffare quella del suo aristocratico datore di lavoro, almeno con un buon margine di probabilità. E’ almeno poi possibile che gli istigatori promettessero immunità e vantaggi economici all’uomo, il quale avrebbe agito più che per fare un favore gratuito ad essi, per un preciso ritorno a sé medesimo.
Stando alle fonti, l’omicidio avvenne durante la notte compresa tra il 14 ed il 15 di Novembre 1461. E’ lecito dedurre che l’uccisore cogliesse la propria vittima nel momento indifeso del sonno, mentre era nell’agio del letto, privo di spada o pugnale, quelle armi che, solitamente, seguivano i Signori durante quell’era, ch’era tutt’altro che sicura e per chiunque.
La tecnica utilizzata, menzionata sempre dalle fonti, fu quella dell’affogamento. Il che presuppone che il Tricarico, tenendolo per la gola, avesse costretto prima e tenuto poi il Principe dentro una vasca di acqua o qualcosa di simile, fino a che gli fosse esalato l’ultimo respiro.
Se si volesse così ricostruire l’intera scena del delitto, si potrebbe concludere che il Tricarico avesse colto di sorpresa Giannantonio nel pieno del torpore notturno, trascinandolo dentro un contenitore d’acqua che fosse nei paraggi del letto, utilizzato magari per le abluzioni, e lì lo avesse tenuto, o, meglio, gli avesse forzato la testa sino al sopraggiungimento della morte. Infine, deve aver avuto cura di risistemarlo sul talamo, dove, in effetti, fu ritrovato al mattino “con segni di morte violenta”.
Una fine tragica e brutale, come tutte quelle che seguono ad un atto di assassinio compiuto con premeditazione e cinica spietatezza. Un agire che, raggiunta la propria compiutezza, nella sostanziale assenza di uno Stato di Diritto, avrebbe esposto il suo responsabile alla certa pena capitale, essendo il caso di un servo che uccidesse il proprio padrone, un popolano che osasse togliere la vita ad un Signore. E, invece, no. Perché quell’atto andava a servire e ad avvantaggiare un altro Signore, un suo concorrente, uno anche più potente, il Re in persona.
Ed ecco anche come si spiega l’improvviso mutamento di status sociale ed economico che investì il Tricarico subito dopo la commissione di quell’efferato gesto. “Indi” - si legge negli scritti del Santoro - “diede a Paolo Tricarico un amplissimo privilegio, dichiarandolo Nobile suo Commensale, concedendoli franchizie perpetue per sé, e suoi discendenti, come se ha memoria nel Privilegio spedito in Foggia l’anno 1463, e confermato dalla Regia Camera l’anno 1670 a suoi successori discendenti”.
E non solo. Ad ottenere premio, fu anche la stessa città di Altamura. La gioia di Re Ferdinando, che, subito dopo la soppressione del suo più temibile avversario interno, aveva incamerato i suoi diritti territoriali da feudatario e anche le sue enormi riserve monetarie, si espresse infatti attraverso la concessione di cingere lo stemma civico con la corona regia (visibile e in vigore tutt’ora), oltre a vari altri “privilegi” che piovvero sull’urbe sotto varia forma.
Tutti fatti che, mirati cogli occhi dei tempi d’oggi, potrebbero apparire inverosimili o perfino grotteschi, ma che si spiegano con le caratteristiche di certa mente remota e s’inquadrano entro la cornice del reale spirito morale di quell’epoca. Perché, detto senza timore di dubbio, ogni fase della storia umana tiene diritto ad un proprio, distinto giudizio, come ogni periodo dell’evoluzione dell’umanità continua a farsi leggere come solo uno dei capitoli d’un vasto libro, che ha avuto un inizio e deve ancora conoscere una fine.
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