(Un tratto sconquassato di via Agrigento, traversa di via Carpentino) |
ROBERTO BERLOCO - ALTAMURA. Carpentino. Malgrado quello che si possa credere da primo impulso, non si tratta del nome di una città e, neppure, di un personaggio degno di storica memoria. Stavolta no. Perché quel che è un fonema abbastanza familiare all’intera comunità , corrisponde alla denominazione di una precisa località in territorio altamurano, non così distante dal centro urbano. Otto chilometri, metro più, metro meno. Per dar una maggior idea, nei pressi stretti del percorso di quella che fu la via Appia. Un’area di grande pregio storico, sede di un insediamento rupestre e prossima ad un altro sito rilevante, quello preistorico del Pisciulo, le cui grotte evocano di continuo un vissuto che ha il sapore dei millenni, tanti quanti ne corrono da quando le lande murgiane vennero scoperte dal genere umano.
Via Carpentino, dunque, è la via che punta alla località di Carpentino, e che, da questa, ne prende appellativo. Una strada importante, perché con un senso, quello imposto dal suo nome, ma pure perché con un doppio senso. Una delle rare, in paese, a poter cioè godere d’ambedue i sensi di marcia. Un particolare assolutamente non da poco, considerando l’impraticabilità della maggior parte delle strade civiche altamurane, finché si voglia tener fermo il parametro della moderna concezione, dunque con la dote di carreggiate dalla duplice corsia e adeguate aree a parcheggio.
Per giunta, la strada tiene inizio da un’intersezione con via Alessandro Manzoni, è poi punto di sfocio per via Ugo Foscolo, e, per un tratto, costeggiando piazza Aldo Moro, come a voler aggiungere prestigio a prestigio, e, nel contempo, lasciar montare legittime attese di particolare cura e doverose attenzioni.
Cura e attenzioni che invece di abbondare, sembrano decisamente scarseggiare, come lascia intendere anzitutto lo stato generale dell’asfalto, da un capo all’altro, capace di offrire un deprimente impatto visivo. Rattoppi menati laddove fosse necessario, chiamano a gran voce l’idea di un vestito vecchio col quale ci si deve arrangiare. Fessure sottili e ricorrenti chiazzano qua e là il manto della carreggiata, squarci quasi impercettibili dove la pioggia penetra, e, rovescio dopo rovescio, scava, allarga, consuma, deteriora.
Strisce pedonali presenti, ma talvolta sbiadite, ulteriore conferma di un disinteresse di fatto da parte di chi governa verso chi è governato, sembrano come voler fare da antipasto ad un pranzo amaro e impossibile da respingere. Basta voltare, infatti, per via Agrigento ed eccolo lì, apparecchiato e invitante per chiunque abbia il gusto delle sorprese, con la tovaglia dell’asfalto ben crepata che ondeggia sulle pietanze delle zolle sotterranee, sollevate dalle radici degli alberi del largo che, colle sue panchine, fa da capiente spartitraffico con piazza Moro. Una vista pietosa, con la spettatrice sempre presente di una fila di autorimesse dall’altro lato della strada, che se ne stanno come muti cipressi di un dimenticato sepolcreto cittadino.
Si. Proprio così! Lo stesso problema di via Manzoni, che, tutt’ora, è sottoposta ad un’azione di restauro che fa sperare in risultati finali di tutto rispetto, ma pure, nel frattanto, assai disperare, vista l’afflizione imposta a commercianti, residenti, e, di sabato, anche agli stessi operatori del mercato settimanale.
Il pericolo, per chiunque vi si trovi a camminare, ovviamente, c’è e non si può certo ignorare. Ma il pericolo diventa improvvisamente elevato e ingiustificabile se, a passarci sopra, sono anziani, bambini o disabili.
La minaccia sussiste anche per i forestieri che, magari dopo aver usufruito dei bagni pubblici che stanno lì di lato, non si aspettano di dovere incespicare subito dopo esserne usciti, magari cadendo e sbucciando un ginocchio. E, probabilmente, a chi è successo, non è venuto manco in mente di elevare proteste fino in Municipio, mettendo piuttosto quello spiacevole incidente nel conto dei tanti simili, più o meno gravi, che rientrano nella regola di quello che, a tutti gli effetti, è in ultimo un paese, sia pure fisicamente esteso e demograficamente nutrito.
Ma, con la rassegnazione, si finisce anche per rendersi partecipi delle negligenze di chi avrebbe il compito e il dovere di intervenire. Con la rassegnazione si assicura chi esercita l’omissione nel campo delle opere pubbliche, di non dover temer altro che il momento delle elezioni. Con la rassegnazione, si fa infine il torto maggiore, quello a sé medesimi, perché è soprattutto quel sé, in fondo, ad aver più titolo ad ottenere giustizia. E se, a tanto, si aggiungono l’immagine e l’onore d’una realtà urbana che ambisce ai riflettori di palcoscenici addirittura mondiali - come risale dalla richiesta del riconoscimento di Patrimonio immateriale Unesco per il suo Pane - allora si comprenderà naturalmente come quella ch’è un’esigenza ovvia per il cittadino corrisponda ad un dovere d’intervenire, e non di volta in volta su sollecitazione della comunità sofferente, ma con quella regolare costanza che è il timbro tipico dell’agire d’un ordinario Amministratore civico.
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