DELIO DE MARTINO - “Piccolo indifeso / Batuffolo di pelo / Ero io / Dolce cagnolino / Tra le
mani di una fata”. Così racconta la sua tenera epifania in “una casa nella foresta” Glykà,
l’alter-ego di Santa Fizzarotti Selvaggi, “autore” dell’ultimo volume intitolato Glykà. Ventuno
racconti in forma di Poesia tra croccantini e gocce di miele (Gagliano Edizioni, 2024). Il
volumetto, nello stesso tempo grazioso e provocatorio, della poetessa, è infatti immaginato
nella fictio letteraria scritto dallo stesso cagnolino, un bolognese bianco, allegro e
soprattutto amante della poesia. La silloge si inserisce in una millenaria tradizione
letteraria legata all’animale da compagnia per antonomasia.
Fin dagli albori della cultura occidentale il cane è stato un personaggio frequente e talora decisivo nello sviluppo narrativo, capace di suscitare profonde emozioni dal terrore fino alla più profonda commozione.
Il primo celeberrimo cane letterario è quello di Odisseo, Argo, l’unico a riconoscerlo quando torna ad Itaca sotto mentite spoglie. La comunicazione tra Argo, che ha aspettato il suo padrone per vent’anni, e Odisseo nel libro XVIII dell’Odissea è sine verbis, muta (“mosse la coda, abbassò le due orecchie / ma non poté correre incontro al padrone”) ma così profonda da suscitare il pianto di Odisseo, un pianto intenso quanto quello provocato nel libro VIII dai versi dell’aedo Demodoco nell’isola dei Feaci.
Il cagnolino della Fizzarotti si esprime invece “per verba”, anzi in versi, ma in fondo presenta tratti in comune con il cane omerico, a partire dal nome parlante. Argo deriva dal greco “άργος”, un aggettivo che significa “lucente”, “bianco”, “splendente”, caratteristiche fisiche ma soprattutto morali del cane più fedele della letteratura di tutti i tempi. Glykà deriva dall’aggettivo greco “γλυκύς” “dolce”, un nome aristocratico ma suggerito dall’insegna di una taverna “Onira Glykà” (“Dolci sonni”) di Creta, una terra mitica anch’essa da sogno a cui la poetessa aveva dedicato un paio di anni fa l’Ode a Creta (2022). Non meraviglia che proprio in quell’isola il cagnolino Glykà vorrebbe andare insieme ai padroni come confida nella poesia Un segreto: “vorrei andare pure io / A Creta / Dove i miei adottivi genitori / Si recano tutte le estati”.
Come Glykà, un altro celebre cane “poetico” è Gulì, il fedele amico di Giovanni Pascoli. Pascoli utilizzò lo stesso espediente retorico-narrativo di Santa Fizzarotti Selvaggi: la prosopopea. Trasformato in un prosopon, in personaggio parlante, Gulì era in grado di scrivere testi al pari di Glykà. Il nome derivava da Emanuele Gulì il titolare di una pasticceria di Palermo dal quale il poeta aveva ricevuto un vassoio di dolci inviato dai suoi studenti. Proprio leggendo su questo vassoio il nome del pasticciere di Palermo, il poeta lo scelse per il meticcio che gli era stato appena regalato dal padre di Antony de Witt, l’illustratore delle sue poesie. Anche Gulì era dunque un cane “dolce” che doveva il suo nome al proprietario di un negozio di dolciumi. In comune con Glykà il cane pascoliano ha anche un tratto non comune, la nobiltà. La sorella del poeta, Mariù, descrisse infatti questo cane con lo stesso aggettivo che utilizza Santa Fizzarotti nella sua silloge: “aristocratico”. Un’aristocrazia che è prima di tutto spirituale prima ancora che fisica e sociale. Pascoli si era ispirato al suo cane per comporre il poemetto latino Canis proprio per raccontare la nobiltà d’animo del suo fedele Gulì. A sua volta Santa Fizzarotti intravede nel suo Glykà uno spirito poetico, anzi più poetico e genuino di quanto potrebbe esserlo un essere umano.
Se in Canis Pascoli fa parlare il cane protagonista in latino, altrove fa commettere a Gulì vari errori grammaticali, come nella lettera ad un amico del poeta in cui chiedeva biscotti: “Spero presto rivederdi a manciare una piccola bistecca con losso e il ventilatore. Zio e mamma ti saltano e tabbracciano sono tuo Gulì Pascoli, dei piscottini menè toccati poini. Ne manciano molti zio e mamma e altri secatori”.
Il cane della Fizzarotti scrive invece in un perfetto italiano e con raffinatissimo gusto poetico. Nel corso delle pagine del libro presenta “ventuno racconti in forma di Poesia”, ovvero delle poesie che sono dei flash di una vita poetica vissuta con gli occhi di un cane.
Attraverso lo sguardo straniato del cagnolino ora entusiasta, ora spaventato, ora sognatore, il lettore rilegge il mondo che lo circonda. L’excursus poetico parte dalla nascita e dal suo primo viaggio raccontato in Piccolo indifeso e prosegue con versi dedicati alle persone che lo circondano, come i genitori adottivi e le dog sitter, oltre al racconto di scene quotidiane tra le passeggiate e atmosfere vissute nel giardino di villa Fizzarotti. Il cane è anche testimone della famosa festa del Carmelo organizzata a villa Fizzarotti (“E a me piace danzare / Con la dog sitter / Pur con il desiderio / Nel cuore / Dopo aver ascoltato / Scrittori e poeti / Di diventare famoso / Anche io”).
Ma Glykà riesce ad affrontare temi complessi anche per gli uomini, come la malinconia, l’amore provato per una gattina, la paura (per i fuochi artificiali o il vento di tempesta), il mistero della vita e della morte.
Glykà ha anche domande segrete che lo tormentano o questioni metaletterarie sul senso della poesia e l’importanza della fama e i premi letterari.
Tutti questi temi sono affrontati in versi che si caratterizzano per uno stile peculiare simile a quello della madre adottiva ma allo stesso tempo con significative differenze.
Proprio come Santa Fizzarotti, il cane bolognese ama comporre con dotte citazioni, come le due che aprono la raccolta: una di Platone: “il cane ha l’anima di un filosofo” che richiama anche la dottrina di Diogene e dei filosofi seguaci del cinismo e l’altra di Alphonse Toussenel “Iddio creò l’uomo, poi, vedendolo così debole, gli donò il cane”.
In questa silloge le citazioni sono in corsivo e collocate solitamente come incipit o come explicit delle liriche. Ad esempio la prima lirica termina con una citazione di Neruda (“La vita che procede, / e l’antica amicizia, / la felicità / d’essere cane / e d’essere uomo”). Altri versi dello stesso poeta poi costituiscono l’incipit della seconda poesia (“… e solo col silenzio / è premiato il suo valore; / e l’anima che fu sua su questa terra / gli vien negata in cielo”).
I versi delle ventuno liriche sono brevi a volte costituiti da una singola parola, come degli abbai rapidi, altre volte con periodi più lungi simili a poetici ululati. Lo stile poetico, inoltre, è caratterizzato da una certa infantilizzazione nella scelta lessicale che predilige termini del linguaggio dei bambini. Esempi ne sono i diminutivi, “mammina”, “padroncina”, “cagnolino”, “gattina”, le onomatopee come “fraaboom” e altri anche termini tipici del baby talking.
Tra i lemmi del gergo infantile vi è anche “monello”, un vocabolo che deriva da “demonello” e allude ironicamente alla grande tradizione letteraria dei cani feroci e “infernali”, l’altra faccia della tradizione poetica canina.
Nel libello “a cura” della Fizzarotti la dolcezza simboleggiata già dal nome Glykà si riversa anche nello stile poetico delle poesie, che propongono al lettore un cane-scrittore dall’indole opposta ai tanti cani aggressivi e spietati che popolano la letteratura e che costituiscono insieme ai cani “dolci”, l’altra enorme categoria canina. Da Dante che popola il suo inferno di cani come Cerbero o le cagne che inseguono le anime degli scialacquatori fino ad autori moderni (si pensi al Mastino dei Baskerville di Conan Doyle), il cane ha infatti incarnato una doppia e antitetica simbologia.
Nella stessa raccolta di Glykà, nonostante la generale dolcezza poetica, è riscontrabile una traccia di quest’altra categoria di “canis horribilis”. Nella lirica Glykà ricorda un trauma vissuto dalla sua “padroncina scrittrice”. Quando era piccola infatti “Aveva terrore di noi / Cagnolini / Perché l’avevano spaventata” in quanto giocò mettendo le mani tra le “fauci di un Staffordshire Bull Terrier”. Ma Glykà stesso, conscio del trauma sa guarire le ferite del passato e anche del presente quando la padroncina “a casa / Torna turbata / Io le vado incontro”.
Il bolognese è dunque una sorta di psicologo, un agente attivo della pet-therapy che guarisce le malattie e le sofferenze dell’anima anche accarezzando i sogni di gloria letterari.
Non sorprende quindi che la Prefazione sia stata scritta da Donato Favale, psichiatra e psicoterapeuta appassionato di letteratura classica che, oltre a richiamare archetipi come le favole di Esopo, la vita cinica di Diogene e Platone, citando Freud afferma che “il sentimento per i cani è lo stesso che nutriamo per i bambini”.
Tra Glykà e la sua padrona scrittrice c’è in fin dei conti un rapporto materno e simbiotico, “telepatico” come è definito dallo stesso cane, fin da quando fu adottato e di notte era posto “in quel recinto per un bambino mai nato”.
Ma Glykà è anche maestro e insegna valori come l’onestà nella scrittura letteraria. In particolare il cagnolino dichiara di non copiare da internet perché ha imparato dalla padrona “Che è obbligo morale / Citare “le fonti”. Dà insomma anche lezioni di scrittura creativa arrivando nella poesia conclusiva, Il mio umile lavoro, ad ammettere il suo più grande sogno: una candidatura al Nobel.
Insomma Glykà sogna di arrivare a Stoccolma “con un tight da cagnolino” seguendo le orme di Juan Ramón Jimenez e Luis Sepúlveda, premi Nobel vincitori della prestigiosa medaglia grazie anche alla poesia dei loro animali letterari: l’asino Platero e la gabbianella e il gatto.
Fin dagli albori della cultura occidentale il cane è stato un personaggio frequente e talora decisivo nello sviluppo narrativo, capace di suscitare profonde emozioni dal terrore fino alla più profonda commozione.
Il primo celeberrimo cane letterario è quello di Odisseo, Argo, l’unico a riconoscerlo quando torna ad Itaca sotto mentite spoglie. La comunicazione tra Argo, che ha aspettato il suo padrone per vent’anni, e Odisseo nel libro XVIII dell’Odissea è sine verbis, muta (“mosse la coda, abbassò le due orecchie / ma non poté correre incontro al padrone”) ma così profonda da suscitare il pianto di Odisseo, un pianto intenso quanto quello provocato nel libro VIII dai versi dell’aedo Demodoco nell’isola dei Feaci.
Il cagnolino della Fizzarotti si esprime invece “per verba”, anzi in versi, ma in fondo presenta tratti in comune con il cane omerico, a partire dal nome parlante. Argo deriva dal greco “άργος”, un aggettivo che significa “lucente”, “bianco”, “splendente”, caratteristiche fisiche ma soprattutto morali del cane più fedele della letteratura di tutti i tempi. Glykà deriva dall’aggettivo greco “γλυκύς” “dolce”, un nome aristocratico ma suggerito dall’insegna di una taverna “Onira Glykà” (“Dolci sonni”) di Creta, una terra mitica anch’essa da sogno a cui la poetessa aveva dedicato un paio di anni fa l’Ode a Creta (2022). Non meraviglia che proprio in quell’isola il cagnolino Glykà vorrebbe andare insieme ai padroni come confida nella poesia Un segreto: “vorrei andare pure io / A Creta / Dove i miei adottivi genitori / Si recano tutte le estati”.
Come Glykà, un altro celebre cane “poetico” è Gulì, il fedele amico di Giovanni Pascoli. Pascoli utilizzò lo stesso espediente retorico-narrativo di Santa Fizzarotti Selvaggi: la prosopopea. Trasformato in un prosopon, in personaggio parlante, Gulì era in grado di scrivere testi al pari di Glykà. Il nome derivava da Emanuele Gulì il titolare di una pasticceria di Palermo dal quale il poeta aveva ricevuto un vassoio di dolci inviato dai suoi studenti. Proprio leggendo su questo vassoio il nome del pasticciere di Palermo, il poeta lo scelse per il meticcio che gli era stato appena regalato dal padre di Antony de Witt, l’illustratore delle sue poesie. Anche Gulì era dunque un cane “dolce” che doveva il suo nome al proprietario di un negozio di dolciumi. In comune con Glykà il cane pascoliano ha anche un tratto non comune, la nobiltà. La sorella del poeta, Mariù, descrisse infatti questo cane con lo stesso aggettivo che utilizza Santa Fizzarotti nella sua silloge: “aristocratico”. Un’aristocrazia che è prima di tutto spirituale prima ancora che fisica e sociale. Pascoli si era ispirato al suo cane per comporre il poemetto latino Canis proprio per raccontare la nobiltà d’animo del suo fedele Gulì. A sua volta Santa Fizzarotti intravede nel suo Glykà uno spirito poetico, anzi più poetico e genuino di quanto potrebbe esserlo un essere umano.
Se in Canis Pascoli fa parlare il cane protagonista in latino, altrove fa commettere a Gulì vari errori grammaticali, come nella lettera ad un amico del poeta in cui chiedeva biscotti: “Spero presto rivederdi a manciare una piccola bistecca con losso e il ventilatore. Zio e mamma ti saltano e tabbracciano sono tuo Gulì Pascoli, dei piscottini menè toccati poini. Ne manciano molti zio e mamma e altri secatori”.
Il cane della Fizzarotti scrive invece in un perfetto italiano e con raffinatissimo gusto poetico. Nel corso delle pagine del libro presenta “ventuno racconti in forma di Poesia”, ovvero delle poesie che sono dei flash di una vita poetica vissuta con gli occhi di un cane.
Attraverso lo sguardo straniato del cagnolino ora entusiasta, ora spaventato, ora sognatore, il lettore rilegge il mondo che lo circonda. L’excursus poetico parte dalla nascita e dal suo primo viaggio raccontato in Piccolo indifeso e prosegue con versi dedicati alle persone che lo circondano, come i genitori adottivi e le dog sitter, oltre al racconto di scene quotidiane tra le passeggiate e atmosfere vissute nel giardino di villa Fizzarotti. Il cane è anche testimone della famosa festa del Carmelo organizzata a villa Fizzarotti (“E a me piace danzare / Con la dog sitter / Pur con il desiderio / Nel cuore / Dopo aver ascoltato / Scrittori e poeti / Di diventare famoso / Anche io”).
Ma Glykà riesce ad affrontare temi complessi anche per gli uomini, come la malinconia, l’amore provato per una gattina, la paura (per i fuochi artificiali o il vento di tempesta), il mistero della vita e della morte.
Glykà ha anche domande segrete che lo tormentano o questioni metaletterarie sul senso della poesia e l’importanza della fama e i premi letterari.
Tutti questi temi sono affrontati in versi che si caratterizzano per uno stile peculiare simile a quello della madre adottiva ma allo stesso tempo con significative differenze.
Proprio come Santa Fizzarotti, il cane bolognese ama comporre con dotte citazioni, come le due che aprono la raccolta: una di Platone: “il cane ha l’anima di un filosofo” che richiama anche la dottrina di Diogene e dei filosofi seguaci del cinismo e l’altra di Alphonse Toussenel “Iddio creò l’uomo, poi, vedendolo così debole, gli donò il cane”.
In questa silloge le citazioni sono in corsivo e collocate solitamente come incipit o come explicit delle liriche. Ad esempio la prima lirica termina con una citazione di Neruda (“La vita che procede, / e l’antica amicizia, / la felicità / d’essere cane / e d’essere uomo”). Altri versi dello stesso poeta poi costituiscono l’incipit della seconda poesia (“… e solo col silenzio / è premiato il suo valore; / e l’anima che fu sua su questa terra / gli vien negata in cielo”).
I versi delle ventuno liriche sono brevi a volte costituiti da una singola parola, come degli abbai rapidi, altre volte con periodi più lungi simili a poetici ululati. Lo stile poetico, inoltre, è caratterizzato da una certa infantilizzazione nella scelta lessicale che predilige termini del linguaggio dei bambini. Esempi ne sono i diminutivi, “mammina”, “padroncina”, “cagnolino”, “gattina”, le onomatopee come “fraaboom” e altri anche termini tipici del baby talking.
Tra i lemmi del gergo infantile vi è anche “monello”, un vocabolo che deriva da “demonello” e allude ironicamente alla grande tradizione letteraria dei cani feroci e “infernali”, l’altra faccia della tradizione poetica canina.
Nel libello “a cura” della Fizzarotti la dolcezza simboleggiata già dal nome Glykà si riversa anche nello stile poetico delle poesie, che propongono al lettore un cane-scrittore dall’indole opposta ai tanti cani aggressivi e spietati che popolano la letteratura e che costituiscono insieme ai cani “dolci”, l’altra enorme categoria canina. Da Dante che popola il suo inferno di cani come Cerbero o le cagne che inseguono le anime degli scialacquatori fino ad autori moderni (si pensi al Mastino dei Baskerville di Conan Doyle), il cane ha infatti incarnato una doppia e antitetica simbologia.
Nella stessa raccolta di Glykà, nonostante la generale dolcezza poetica, è riscontrabile una traccia di quest’altra categoria di “canis horribilis”. Nella lirica Glykà ricorda un trauma vissuto dalla sua “padroncina scrittrice”. Quando era piccola infatti “Aveva terrore di noi / Cagnolini / Perché l’avevano spaventata” in quanto giocò mettendo le mani tra le “fauci di un Staffordshire Bull Terrier”. Ma Glykà stesso, conscio del trauma sa guarire le ferite del passato e anche del presente quando la padroncina “a casa / Torna turbata / Io le vado incontro”.
Il bolognese è dunque una sorta di psicologo, un agente attivo della pet-therapy che guarisce le malattie e le sofferenze dell’anima anche accarezzando i sogni di gloria letterari.
Non sorprende quindi che la Prefazione sia stata scritta da Donato Favale, psichiatra e psicoterapeuta appassionato di letteratura classica che, oltre a richiamare archetipi come le favole di Esopo, la vita cinica di Diogene e Platone, citando Freud afferma che “il sentimento per i cani è lo stesso che nutriamo per i bambini”.
Tra Glykà e la sua padrona scrittrice c’è in fin dei conti un rapporto materno e simbiotico, “telepatico” come è definito dallo stesso cane, fin da quando fu adottato e di notte era posto “in quel recinto per un bambino mai nato”.
Ma Glykà è anche maestro e insegna valori come l’onestà nella scrittura letteraria. In particolare il cagnolino dichiara di non copiare da internet perché ha imparato dalla padrona “Che è obbligo morale / Citare “le fonti”. Dà insomma anche lezioni di scrittura creativa arrivando nella poesia conclusiva, Il mio umile lavoro, ad ammettere il suo più grande sogno: una candidatura al Nobel.
Insomma Glykà sogna di arrivare a Stoccolma “con un tight da cagnolino” seguendo le orme di Juan Ramón Jimenez e Luis Sepúlveda, premi Nobel vincitori della prestigiosa medaglia grazie anche alla poesia dei loro animali letterari: l’asino Platero e la gabbianella e il gatto.