'Se fossimo stati più vicini, forse avremmo potuto salvarla': la testimonianza chiave nel caso dell'omicidio di Sharon Verzeni
"Il nostro unico rimpianto è non aver potuto fare qualcosa per salvare Sharon. Se fossimo stati più vicini al luogo dell'omicidio, forse avremmo potuto salvarla". Queste le parole di due giovani italiani di origine marocchina, intervistati da Repubblica, che hanno giocato un ruolo decisivo nelle indagini sull'omicidio di Sharon Verzeni, la 33enne uccisa a Terno d'Isola nella notte del 30 luglio.
I due ragazzi, di 25 e 23 anni, hanno fornito informazioni chiave ai carabinieri, aiutando a identificare l'assassino, Moussa Sangare, 31 anni, nato a Milano da una famiglia di origini maliane. Sangare ha confessato di aver ucciso Sharon, affermando: "Non so perché, l'ho vista e l'ho ammazzata". Sangare era già stato denunciato da madre e sorella per maltrattamenti e aveva avuto collaborazioni nel mondo della musica rap con artisti come Izi ed Ernia, aspirando a una carriera nello spettacolo. Il suo avvocato ha parlato di problemi psichiatrici, ma gli inquirenti ritengono che ci fosse premeditazione.
La scoperta dell'arma del delitto
L'assassino ha indicato agli investigatori il luogo in cui aveva seppellito l'arma del delitto, un coltello, a Medolago, nei pressi del fiume Adda. Il coltello è stato recuperato e inviato al RIS per verificare se sia l'arma usata per uccidere Sharon. Sangare ha anche confessato di aver gettato nel fiume altri tre coltelli e i vestiti sporchi di sangue, poi recuperati dai sommozzatori.
Il racconto dei testimoni
I due ragazzi che hanno aiutato a identificare l'assassino hanno raccontato la loro esperienza: "Quella sera eravamo usciti come al solito molto tardi per allenarci. Erano circa mezzanotte, ci trovavamo a Chignolo, vicino alla farmacia e al cimitero. Mentre facevamo delle flessioni, sono passati due nordafricani in bicicletta, seguiti da un terzo. Quest'ultimo ci è rimasto impresso per il suo comportamento strano: indossava una bandana, un cappellino, aveva uno zaino e degli occhiali. Ci ha fissato a lungo e poi ci ha fatto una smorfia".
Un contributo decisivo alle indagini
I due giovani hanno riportato immediatamente la loro testimonianza ai carabinieri: "Quando siamo stati chiamati in caserma, abbiamo raccontato tutto con precisione e ci hanno fatto i complimenti. Ora ci sentiamo orgogliosi di aver contribuito all'identificazione dell'assassino. Tuttavia, il rimpianto che ci resta è non essere stati più vicini a via Castegnate quella notte. Forse avremmo potuto fare qualcosa per Sharon".
I due testimoni, che hanno ottenuto la cittadinanza italiana da adolescenti, hanno concluso la loro testimonianza con un messaggio di riflessione: "Vogliamo far capire che, sebbene il killer fosse di origini straniere, lo siamo anche noi. Senza la nostra testimonianza, forse l'assassino sarebbe ancora libero. Pensiamo di aver fatto semplicemente il nostro dovere".