Dal silenzio alla parola

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SANTA FIZZAROTTI SELVAGGI - "La donna è una schiava che bisogna mettere sul trono". (Honoré de Balzac)

Raccontare la storia delle donne non è facile, poiché si tratta di vicende sempre vissute, tranne ovviamente quei pochi casi che però confermano la regola, nel silenzio e all’ombra delle mura domestiche. La donna, in realtà, è sempre stata rappresentata; ma in tale rappresentazione l’immagine ha sommerso ogni cosa (Duby, 1992). Si rischia dunque di parlare delle donne e di vedere immagini femminili sempre e comunque “attraverso lo sguardo dell’Altro”.

Certo è che, nel corso dei secoli, la donna ha dovuto conquistare con grandi difficoltà il diritto alla parola. Nel mondo greco, per esempio, l’“altra metà del cielo” ci appare — scrive G. Sissa — come “soggetto in margine all’esercizio filosofico, medico e letterario”. Alle donne competevano le attività normali e ordinarie della casa: tessitura, ricamo e cura dei figli. Soltanto Platone osservò che alle donne era affidata proprio l’educazione quale asse portante della società e, più di altri, pose in relazione “l’analogia tra concepimento intellettuale, enunciazione e parto”. Nel Simposio, la sacerdotessa Diotima elabora la teoria dell’amore. In tale teoria, “il desiderio, da un piano erotico, può giungere ad altri livelli, può cioè diventare desiderio di sapere”: il soggetto — continua Sissa — che si muove verso questo amore fa valere la “fecondità della sua anima, della sua psyche”. Diotima dice, tra l’altro, che l’anima che si occupa della conoscenza “è incinta fin dall’infanzia”.

La parola femminile è sempre stata in parte silenziosa: talvolta una parola muta, un’assenza di parola. In tale doloroso contesto, gli uomini hanno sempre rivendicato la loro centralità storica; d’altra parte, secondo il mondo maschile, la donna aveva largamente ricevuto dalla natura la possibilità di generare. Non a caso l’“altra metà del cielo” (come si suol dire) è spesso stata strumento e oggetto passivo, e per associazione immediata ritenuta talvolta inferiore. E in qualsiasi campo del sapere, forse, mai all’altezza della situazione.

È stata, probabilmente, anche la normale fisiologia, per alcuni aspetti, a determinare molte complicazioni sociali che soltanto nel Novecento, grazie a un diverso livello di coscienza civile, ma anche scientifica e politica, hanno trovato possibilità di risoluzione. La donna, infatti, ha potuto, anche se solo in parte, controllare e decidere alcuni eventi, stabilire una sorta di intercambiabilità dei ruoli, affermare la propria parola in ambito sociale. Eppure, nonostante tutto ciò, ancora inconsciamente sono radicate convinzioni che rendono difficile l’affermazione piena di una effettiva parità.

Nel contesto di tali riflessioni, i testi di Anna Curcio, sia che si tratti di volumi che di prefazioni, come si legge in un lavoro di Silvia Federici, Caccia alle streghe e Capitale, edito da Derive Approdi, o nell’Introduzione ai femminismi. Genere, razza, classe, riproduzione: dal marxismo al queer, edito da Derive Approdi, sono carichi di grande saggezza e di un’analisi puntuale della vicenda storica e antropologica del femminismo e del femminile come tale. Nelle visioni androcentriche, spesso non si fa riferimento artatamente a tutto lo sfruttamento delle donne, a cominciare dal lavoro domestico, che procura una serie di vantaggi per la comunità e che non viene riconosciuto. Il lavoro domestico, infatti, non è considerato nella sua giusta valenza; anzi, lo si utilizza in funzione del Capitale e, nonostante ciò, proprio le donne sono state perseguitate, emarginate, private di ogni vera indipendenza.

Interessante appare il confronto tra economie, tra stati di schiavitù di economie: induce a riflettere questo raffronto con quello che è davvero la schiavitù, che non riguarda soltanto i popoli di colore, ma anche le donne della “civile” Europa, perché il modello è sempre un modello maschile. “Gli strumenti del padrone” — leggo nel saggio di Mari Moise — “non distruggeranno mai la casa del padrone” e ancora si legge: “Ciò significa che la riduzione ideologica delle donne alla loro emotività non si contrasta nell’appropriarsi delle modalità di dominazione maschile, ma negando la reificazione del maschile nei termini di insensibilità e dominazione”. Invero, è sempre un mondo androcentrico e non a caso i femminicidi sono in grande aumento, perché forse a livello dell’inconscio maschile le donne devono pagare cara la loro libertà.

La disamina di Anna Curcio esprime l’urgenza del coraggio di vedere lì dove molti non vedono, e cioè un’oppressione politicamente inclusiva in cui le donne non hanno diritti, anche se si sbandiera la loro parità. Nel lavoro Introduzione ai femminismi, che contiene saggi e contributi di Anna Curcio, Maria Moise, Veronica Gago, Federica Giardini, Sara Garbagnoli, Federico Zappino e Lorenza Perini, viene esaminato in modo magistrale il nodo del potere, i temi del lavoro, della riproduzione della vita, della sessualità e dei diritti. Da tutto ciò si comprende appieno come la donna sia sempre stata, almeno in alcuni ambienti, ritenuta una macchina da riproduzione, una macchina che procura denaro in un ambito di sfruttamento ed emarginazione.

In Caccia alle streghe e Capitale, di Silvia Federici, Anna Curcio scrive una prefazione straordinaria, chiedendo a se stessa e a noi tutti come si possa sovvertire “questa naturalizzazione della figura della donna. Come porre fine a questo enorme flusso di lavoro non pagato, a tutto questo dispendio di lavoro non riconosciuto?” Il che è profondamente vero e sfugge anche alle femministe più accorte. Non si tratta, infatti, solo di disquisire di castità femminile o di organi femminili, se appartengano a se stesse o ad altri, ma di riflettere sulla falsa celebrazione dell’amore romantico che occulta il lavoro che le donne svolgono nell’ambito della famiglia, così come accade per il sesso, che per le donne rientra tra le mansioni del lavoro domestico. D’altra parte, non a caso i corpi femminili sono stati spesso osservati con “morbosità e sospetto”, tanto da giungere finanche alla considerazione che “in un corpo piccolo doveva esserci necessariamente un cervello piccolo”. In definitiva, la donna in alcuni periodi è stata considerata un “difetto della natura”: grande era, in verità, il timore nei confronti di qualcosa che sfuggiva al controllo degli uomini e della loro cosiddetta ragione. Le violenze domestiche sono state e sono, invero, molte.

È evidente che nel corso della storia le cose si sono sviluppate in tal senso, più o meno oscuramente, più o meno garantite dalle leggi e dalle norme. Fatto sta che nel diritto romano si nota una certa inquietudine nei confronti delle donne, anche se “in alcune arringhe si esaltano la saggezza, il riserbo e la moderazione femminile” (in Duby-Perrot, 1994). Ma che cosa, in realtà, ha sempre turbato la storia nei riguardi della donna? Una storia che, per secoli, ha ripetuto “alle donne di tutto il mondo che dovevano necessariamente essere caste e pure, nell’animo e nel corpo, umili, modeste, silenziose, sempre disponibili al sacrificio”, e in alcune civiltà disponibili finanche al sacrificio estremo?

Che cosa, in realtà, si è sempre chiesto alla donna? Che cosa ancora in alcuni luoghi del pianeta si vuole? D’altra parte, anche se nell’Occidente medievale “le donne parlavano e anche molto”... spesso soltanto “il silenzio è giunto fino a noi” (in Duby-Perrot, 1994).

Con onestà, devo affermare che forse nella mente di alcuni uomini non è cambiato molto, anche se bisogna riconoscere che le donne, in secoli di forzato silenzio nelle mura domestiche, hanno introiettato i modelli maschili, per cui alcune continuano ad educare secondo quei modelli androcentrici. Ed è da questa modalità così crudele che bisogna necessariamente tentare di liberarsi. È oltremodo evidente che l’attribuzione di una funzione esclusivamente riproduttiva ha limitato la donna nella sua dignità di persona, i cui compiti nella società sono molteplici, tra i quali quello di contribuire a trasformare gli eventi della storia, a trasmettere cultura, tradizioni, linguaggio…

Il pensiero femminile ha una valenza pari, seppur diversa e per questo preziosa, al pensiero maschile, ma è solo dall’intreccio libero e fecondo tra l’Uno/a e l’Altra/o che può scaturire una società che potrà dirsi davvero civile e non solo progredita. Il “genio” femminile si ravvisa, infatti, nella capacità di generare creatività e civiltà, oltre che di imprimere nuove forme alla mente. In tal senso, come emerso dalla Conferenza di Pechino, si istituisce l’autorevolezza della donna: la storia delle donne non è dunque una storia di vinti.

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