Intervista a Diomede Milillo: esplorando il potere della libertà e delle relazioni nel suo nuovo romanzo


Diomede Milillo, dopo una carriera di successo in ambito economico e finanziario sotto la guida di Enrico Cuccia, ha intrapreso un percorso nella saggistica e, più recentemente, nella narrativa. Autore di tre saggi tra il 2004 e il 2011 con la casa editrice Rubbettino, si è concentrato su temi legati alla storia, alla pace e alla percezione dell’opinione pubblica. Con il suo nuovo romanzo C’è tanta bellezza nel mondo, Milillo esplora i complessi legami tra libertà, sesso e relazioni familiari negli anni Cinquanta e Sessanta, in un periodo cruciale per la trasformazione culturale dell'Italia. In questa intervista approfondiamo la genesi del suo romanzo e il percorso creativo che lo ha portato alla narrativa.

Il passaggio dalla saggistica alla narrativa è un cambiamento significativo nel tuo percorso di autore. Cosa ti ha spinto a esplorare il mondo della narrativa e quali differenze hai trovato rispetto alla scrittura saggistica?

Quando ho cominciato a scrivere (nel 1994) venivo da un mondo, la finanza, che condiziona sempre la realtà. Finanziare ad esempio Toglliattigrad o i nostri rapporti economici con l’Iran o con la Cina non era soltanto finanza, era influire sull’economia e forse pure sulla politica. In quegli anni si arrivava dalle lunghe discussioni sulle “masse” e sulla necessità di ribaltare l’aberrazione della “società industriale avanzata” (così veniva chiamata da Marcuse). In parole povere si trattava della società dei consumi contrapposta alla società teorizzata, ad esempio, da Pasolini.

Nel mio primo saggio, e anche nei successivi, ho cercato di scandagliare la realtà nelle sue diverse manifestazioni, mai nessuna però bianca o nera, e sempre l’unica possibile.

Ma la realtà non è tutta in quella dei saggi, sempre esatta perché vista da un determinato punto di vista, è invece tramite le persone, tramite gli slanci e le debolezze umane, tramite cioè la vita possibile arrivare a brandelli di vera realtà. La scrittura saggistica cerca di dimostrare qualcosa e, come nei teoremi scolastici, arriva alla fine a dire: “così come volevasi dimostrare”, la narrativa parla invece di persone ovviamente mai esenti da errori, ipocrisie, contraddizioni, aspirazioni e/o aberrazioni più o meno confessate e sempre condizionate dagli inevitabili aspetti umani oltre che frutto del momento socio-culturale in cui sono immerse. Nessuno può mai uscire fuori da sé stesso e ciascuno contiene umanità, come la Dragana del libro, una che è socialmente disapprovata ma che contiene più umanità di tanti samaritani istituzionali.

Nel tuo nuovo romanzo C’è tanta bellezza nel mondo, il sesso e la libertà sono elementi centrali. Come hai sviluppato questi temi e quale messaggio speri che i lettori colgano attraverso la storia di Adriana e Lucio?

Il sesso negli anni 50, 60, 70 ha iniziato un’accelerazione del suo processo di sganciamento dalle radici e, modificando i modi di rapportarsi, ha modificato le relazioni: sociali, economiche e politiche in modo rilevante. Il sesso una volta liberatosi dalla schiavitù riproduttiva e dalle tante vecchie limitazioni: religiose, sociali, famigliari e persino lavorative, resta collegato quasi esclusivamente alla sfera affettiva e prima ancora al piacere.


L’elemento femminile quale detentrice della vita è stata sempre, per la sua esclusiva facoltà di scelta, la radice di ogni competizione (e di ogni violenza?) e di ogni successiva sovrastruttura di convivenza: emotiva, mentale, sociale, economica, politica, sovrastruttura che per le intervenute modificazioni nella sfera del sesso non può non chiedersi perché no, a: autoerotismo, omosessualità, uomo che è donna e viceversa e a tutti gli altri possibili centomila modi di darsi piacere senza più il vincolo riproduttivo. Chi si ricorda più dell’illibatezza, del peccato, dell’adulterio, delle streghe bruciate sul rogo e della salvazione eterna?

Le modificazioni, sempre inarrestabili, rappresentano il nuovo equilibrio (provvisorio) tra le tante forze in gioco. Inutile rimpiangere il latte versato. La realtà è quella che è ed ha sempre ragione e come avrebbe voluto dire Lucio, il protagonista del libro, a chi era in crisi sentendosi immerso in una realtà non sua: “I cambiamenti possono essere belli, bellissimi se si smette di rifiutarli e si cerca di comprenderli” cominciando col conviverci tenendo ovviamente conto dei limiti posti dalle proprie sensibilità e dalle limitazioni imposte dalle necessità di convivenza che vuol dire evitare sempre e comunque la violenza.

Gli anni Cinquanta e Sessanta rappresentano un periodo di grande trasformazione culturale, soprattutto in Italia. Cosa ti ha affascinato di più di questo periodo e perché lo hai scelto come contesto per il tuo romanzo?

Gli anni 50 e 60, gli anni del miracolo economico e dell’inizio del benessere e delle conseguenti modificazioni e trasformazioni economiche, sociali, culturali, sono anni attraversati da una grande fiducia in se stessi e nel progresso, cioè nel continuo miglioramento delle condizioni di vita. Nel contempo, specialmente in provincia e ancora di più in quelle meridionali, si alteravano o addirittura sovvertivano le vecchie sclerotizzate dinamiche sociali per arrivare infine all’omologazione di tutto e tutti nell’unico invadente mondo globale uniformemente cittadino. Il sovvertimento, il capovolgimento dei rapporti portarono nel meridione anche ad un depauperamento delle conoscenze e delle energie umane fuggite a Torino, Milano, Germania. I periodi di accentuazione dei cambiamenti sono sempre molto interessanti per la narrativa con la possibilità di mostrare in modo plastico la fine di un mondo attraverso un uomo appeso, morto, al grande albero che per anni aveva visto ribollire sotto di sé tanta vita del precedente vecchio mondo.

Adriana è un personaggio complesso, che affronta relazioni intime e familiari in modo molto aperto e spesso provocatorio. In che modo il suo percorso di crescita e la sua sessualità riflettono i cambiamenti sociali di quegli anni?

L’unico appiglio contro la devastante sensazione di solitudine – focolaio di insoddisfazione e di violenza contro se stesso e gli altri – è la possibilità di sentirsi amati e di amare, non necessariamente solo tramite la coppia, tramite anche gli affetti, la famiglia, la fede, le aspirazioni, la comunanza sociale, eccetera, eccetera. Lucio e Adriana trovano il loro appiglio nello stare insieme, sono stretti l’uno all’altro, uniti sin dalla fanciullezza contro la realtà di una madre anaffettiva mai uscita dal suo tanto ambito amore da ragazzina e di un padre che pur considerando i figli il fondamento dell’esistenza rincorre sogni di grandezza, uniti contro la realtà sconosciuta (la guerra) che guardano passare rombando sotto il loro balcone.  Per lui, lei è l’ambito mondo femmineo, è colei che lo spinge a vivere, colei che gli fa scoprire il sesso e che lo inventa come artista. 

Per lei, lui è l’ancora di salvezza, lo scoglio a cui aggrapparsi. Dopo aver sperimentato il potere della bellezza, della seduzione e dell’erotismo si accorge che soltanto nell’irrealtà del palcoscenico lei vive eroiche epiche emozioni e che nella vita reale è umana anche lei (va infatti a riprendere chi voleva morta) e che l’unico suo appiglio è il fratello (la sua ancora di salvezza) e che per essere completa la loro unione non può non abbattere le barriere che nella nuova realtà sociale sono già diventate anacronistiche. Perché no ad una totale unità?  Dov’è più lei, dov’è più lui?

Dopo aver pubblicato saggi di rilievo su temi storici e sociali, come pensi che la tua esperienza professionale e intellettuale abbia influenzato il modo in cui scrivi narrativa? C'è qualche collegamento tra la tua carriera precedente e la tua scrittura odierna?

Ognuno è una entità complessa e pur se provvisto di contraddizioni ed errori è sempre uno e uno solo. Secondo me non esistono reparti separati né necessità di cesure, anzi qualsiasi presente è la somma di tutto il vissuto, un vissuto che sfrangiato dall’immediatezza delle gioie e delle pene e dalle emozioni non è altro che il ricordo di sé nel mare dell’esistenza, è la vita, è la propria vita, è la bellezza di ogni vita (apprezzata se vista dal di fuori). La bellezza è uno stato d’animo ed è solo nell’occhio di chi guarda, di chi vuole guardarla, non nella banalità del vissuto.




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