Quelle 'Vite parallele' nell’Inghilterra vittoriana
FRANCESCO GRECO - Pari pari il format è preso da Plutarco che nelle sue “Vite parallele” bypassa biografi, laudatores e uffici stampa (siamo nel I secolo d. C.) e “vede” i potenti di Roma per quello che sono, ibridando fatti reali ad aneddoti, gossip, voci dal sen sfuggite, raccolte magari nella suburra.
Phyllis Rose (1942) nelle sue “Vite parallele” (UTET, Milano 2024, pp. 370, euro 24, traduzione di Franca Castellenghi Piazza) le colloca nell’Inghilterra della Regina Vittoria, dove l’apparenza è tutto e par surrogare ogni altro valore ed etica, l’essere, il reale resta sullo sfondo del paesaggio sociale. Quasi come un ingombrante accessorio che, con la sua morale, potrebbe compromettere la corsa di una Nazione sulla via della rivoluzione industriale.
Appoggiandosi a una bibliografia immensa, Rose estrapola cinque coppie celebri e con la passione dell’entomologo osserva e analizza il loro matrimoni, le dinamiche private e pubbliche da cui sono nati, la gestione della quotidianità in apparenza scontata e quasi banale, ma talvolta ispida e non priva di contraddizioni, anche a causa di sottintesi sussulti femministi in progress, che si agitano nel background della società (e dei salotti).
Scrivendo, in tal modo, l’autobiografia di una Nazione in un dato momento storico.
Almeno, dalla visuale della borghesia intellettuale, perché la vita delle classi basse sulle cui spalle grava il peso della suddetta “rivoluzione” , è meno problematica e più ruvida, all’insegna del primum vivere, deinde philosophari.
Ecco scorrere davanti ai nostri occhi, come in un film, l’Inghilterra di due secoli fa, fra spinte alla modernità e istinti conservatori (tale e quale a quella di oggi) . Nel 1848 (10 aprile) la monarchia sta per collassare: ma a causa della pioggia e del vento forte i rivoluzionari (“cartisti”): dovevano marciare nelle strade di Londra verso la Camera dei Comuni e presentare una petizione, invece se ne tornano a casa.
La propaganda dice che erano 200mila, forse solo 20mila. Le firme raccolte 5 mln, ma forse erano solo 2 e qualcuna (della regina e del principe) taroccata. Thomas Carlyle era ansioso di storicizzare il passaggio storico, ma deve tornare a casa e fare il resoconto a sua moglie Jane Welsh (“Nelle lettere si intravedeva qua e là un barlume di femminismo”).
Charles Dickens è un talento precoce: a 30 anni ha già scritto i romanzi per cui è famoso. Adora la moglie Catherine Hogarth, ha il “culto” della famiglia (quattro figli), perché non ne ha avuta una degna: padre inconcludente (in carcere per debiti), appena ragazzo è andato a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe da cui la madre non vuole toglierlo perché quei soldi servono al bilancio della casa. Da qui un sentimento di rabbia nei suoi confronti. Però in quegli anni è entrato in contatto con i personaggi dei suoi romanzi (basti citare i ladruncoli di “Oliver Twist”).
Altri “matrimoni vittoriani” movimentati indagati dalla scrittrice: di George Eliot, Jhon Stuart Mill e Jhon Ruskin.