Altamura nella storia, il curioso caso dell’Arciprete Abrusci

Particolare esterno della Cattedrale di Altamura - foto A. Chiaromonte

ROBERTO BERLOCO
- Un caso. Uno che, cogli occhi di oggi, potrebbe apparire quanto meno curioso ai più, foriero d’uno spunto di seria ridondanza di pensiero, invece, per quella minoranza abituata a non arrestarsi alla prima comprensione.

Un caso, questo, realmente avvenuto ad Altamura diversi secoli fa, quando l’agglomerato murgiano era noto non per il suo pane, ma per la coltivazione dell’anice, di cui deteneva un primato indiscusso in tutta la Penisola, e, financo, ben oltre i suoi confini naturali.

E’ il volgere alla fine del secolo XVII, uno di un Regno di Napoli dominato ancora dagli Spagnuoli. Già allora, Altamura non è semplicemente una delle tante cittadine del Reame che fa capo a Madrid. In quella che difatti è la Terra di Bari, si erge, con le sue imponenti mura medievali, un centro dall’economia vivace e una popolazione copiosa, almeno per le medie dell’era.

Connessa all’importanza economica e demografica, è pure una presenza autorevole della Chiesa, che radicava il proprio tronco nella Cattedrale dedicata a Santa Maria Assunta, ma andando poi a ramificare in una notevole quantità di edifici, tra chiese minori, cappelle, conventi e monasteri. Senza contare le centinaia tra preti e religiosi di vari Ordini, un dato che, al momento, con la crescente, irreversibile crisi di vocazioni, sorprenderebbe e farebbe perfino sorridere.

Altri tempi, si direbbe. Pilastri di coscienza differenti fondavano la società altamurana, con quelli della Chiesa a fare da basamento importante, se non addirittura essenziale, se tale finiva per essere l’influenza da essa esercitata in tutti i settori della vita civile, e, direttamente oppure di riflesso, negli ambiti politici locali.

Epoche, quelle, nelle quali certo inviluppo di circostanze o certo sviluppo di situazioni tornerebbero oggidì quanto meno incomprensibili. A maggior ragione, se la lente dei mondani istinti, i quali tengono date direzioni nei giorni correnti, dovesse portarsi sui costumi di fatto dell’ecclesia, quella di un tempo, una assai potente, e, per una girandola di fattori, anche straordinariamente attraente. Ancor più se, tra le consuetudini di chi indossasse la tonaca, se ne scovassero di talune che s’assennassero specialmente con le stesse debolezze che, per ufficio e dovere interiore, avrebbero dovuto solo esser combattute e portate alla sconfitta con la vittoria dello spirito.

L’eterna lotta tra questo e gli impulsi della carne o quegli stessi vizi capitali che, dal pulpito, si usava condannare senza remora - e così si usa ancora, solo, a differenza di allora, con assai minore voce in capitolo - era in auge di considerazione tra le sale dorate dei palazzi nobiliari, come tra il volgo senza cultura e senz’altra guida che quella, appunto, del ceto ecclesiastico.

E se era pur vero che le parole tifassero per la purezza di un finale cristiano per ciascuna azione condotta in vita, lo era altrettanto che i fatti mostrassero puntualmente il segno di quanto freno la volubilità dell’umana natura potesse sui venti della salvezza promessa all’anima.

Tra le alte pareti della Chiesa madre altamurana, si respirava l’incenso delle Sante Messe, celebrate con i fedeli che davano le spalle all’officiante, ma pure l’orgoglio di essere come cosa a sé, qualcosa di unico nel contesto dei borghi viciniori, in grazia di una giurisdizione slegata, per una volontà imperiale risalente alla Rifondazione della città, da quella di qualunque autorità vescovile o addirittura papale, e dipendente solamente da quella regia.

Un’ecclesia, quella di Altamura, fiera della propria indipendenza, come pure della propria potenza economica, potendo contare sopra un considerevole patrimonio di rendite, soprattutto fondiarie, e un continuo gettito di offerte, legati e donazioni provenienti dalla gran massa dei devoti. In cima alla sua gerarchia, come assiso sopra un trono ideale, regnava una precisa figura di riferimento, quella dell’Arciprete.

Era, questo, un protagonista autorevole e indiscusso nell’Altamura del tempo, un sacerdote di rango al quale veniva riconosciuto lo stato di massima autorità religiosa della cittadina, e, nel contempo, quello di mediatore di peso nelle relazioni intraciviche, avessero queste un carattere sociale, politico oppure economico.

Si trattava insomma della carica più ambita, dotata di un’autorevolezza sostenuta pure dalla sua genesi, proveniente dalla diretta volontà di un monarca. Una posizione che stentava ad esser seconda a quella del feudatario di turno, tanto era il prestigio che le stava connessa. Uno status di tale rilievo da farsi desiderare anche in altre province del Reame.

Un giorno del 1688, quel seggio così importante venne d’improvviso ad essere vacante. Accadde invero che, dopo venticinque anni di reggimento, l’Arciprete titolare Don Pietro Magri spirasse il 3 di Agosto, lasciando un vuoto di potere all’interno della Chiesa altamurana.

La notizia giunse presto all’orecchio della Corte di Madrid. Dipendeva solo dall’autorità regia, difatti, la nomina dell’Arciprete di Altamura, così come stabilito ab origine dal Rifondatore imperiale svevo. E, insieme alla cerchia del Re, n’ebbe orecchio anche un tale Abrusci, uno dei figliuoli di Niccolò Giovanni Abrusci, in quel momento Giudice in Bitonto e delle Seconde Cause (oggi si direbbe di Corte d’Appello) proprio ad Altamura.

Appartenente ad una famiglia benestante di Acquaviva delle Fonti, dell’Abrusci si ha notizia di una abbondante erudizione nelle Lettere e di una conoscenza​ ferrata del latino, ma, più ancora, di quell’italiano di moda nel suo secolo, che furoreggiava ormai sempre più nelle piazze colte di tutta la Penisola. Di lui, si sa di certo che, per diverso tempo della sua giovinezza, si fosse dedicato alla stesura di sonetti e componimenti vari, raggiungendo una discreta abilità con la penna e un buon grado di fama tra i suoi contemporanei. D’un tratto, dando ragione di una sete di sapere ancora inappagata, diede viscere alla passione per le materie del Diritto, e furono queste che gli diedero titolo per diventare Giudice, un ruolo assai onorevole, ieri come oggi.

Chissà se l’idea sorgesse a lui per primo, oppure al figlio che teneva dimora nella Capitale spagnuola, fatto sta che, dopo la dipartita del Magri, quel suo discendente si mise a brigare presso la Corte reale, fino a che, in appena nove mesi o poco più, si vide l’Abrusci divenire sacerdote, e, una volta indossata la stola, secondo un tempismo da fare invidia a chi oggi giostra gli incarichi della politica, ricevere tosto la nomina di Arciprete di Altamura con decreto del Re di Spagna.

Da questo momento, si ha per noto che egli prendesse possesso del grado prelatizio e lo tenesse saldamente a sé fino al 25 Febbraio del 1698, giorno della sua morte. Quasi un decennio nel quale diede prova di "buon governo", e, quasi alla maniera di una stella culturale nel panorama cittadino, degnandosi di produrre ciò che potrebbe essere definito un indice d’opera omnia, comprensivo dei titoli delle pubblicazioni già avvenute e di quelle che erano in animo di avvenire.

Prima di prendere congedo dalla vita terrena, fece anche in tempo a designare un suo nipote per un ruolo di Canonico nella Chiesa altamurana, probabilmente immaginando di rendere la dignità di Arciprete trasmissibile per via ereditaria. Ma una volta spentosi, il Clero locale respinse fermamente questa decisione, che andava decisamente oltre la legalità e le consuetudini in vigore.

Gli atteggiamenti dell’Abrusci e le manovre familiari che tesero a privilegiarlo, non devono tuttavia portare ad un giudizio di castigo per la sua memoria. All’epoca, la pratica di prendere la veste sacerdotale come anche di dismetterla a seconda pure delle convenienze, rientrava in certa norma accettata dalla società, una dove la Chiesa, tale era la sua penetrazione in ogni contesto del vivere civile, era percepita anche come una preziosa opportunità per raggiungere onori, o, comunque, vantaggi appetibili.

Probabilmente, trasposto nelle situazioni odierne, quel passaggio da magistrato ad Arciprete potrebbe essere accostato a quello da avvocato a magistrato, vale a dire un salto di posizione che chiama in causa maggiore prestigio e tanto di altro collegato a questo. Un fatto comprensibile, in quanto rientrante nella regola dell’umana ambizione. E quella dell’Abrusci dovette essere considerata ammissibile anche da quel Signore Dio che andò a servire, se infine vi riuscì.

Oggi, di questo personaggio che occupò autorevolmente una porzione della storia locale più remota, rimane il ricordo della lapide sotto la quale, quattro anni dopo la sua morte, venne seppellito, all’interno di una cappella della Cattedrale, con un’iscrizione in latino che ne rimarca meriti, cultura e qualità eccelse, tali da farne sicuro esempio per i posteri.

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