FRANCESCO DE MARTINO - L’amore per la stampa e per i libri l’aveva ereditato dal padre. Era nato a Bari il 18 febbraio 1916 da un maresciallo della Finanza con l’uzzolo delle tipografie. Dopo una prima caduca esperienza negli anni Venti con l’ingegnere Valerio, ci riprovò nel 1932 con una propria azienda Tipografica al numero 27 di via Dante, che affidò ai figli Mario e Vittorio. Negli anni seguenti i figli si divisero: Vittorio in Corso Italia, 52 e Mario in via Crisanzio, 45. Nel 1934, don Mario, come tutti l’abbiamo sempre rispettosamente e affettuosamente chiamato, pubblicò il primo libro, su Sant’Antonio proposto da un francescano, duecento pagine in tutto. In futuro un ruolo centrale avrebbe avuto nella casa editrice San Nicola con i suoi meticolosi e dotti padri e priori della basilica.
Con Sant’Antonio nasceva, giusto novant’anni fa, una casa editrice destinata a contare sempre di più nel panorama pugliese e poi, col passare degli anni e dei libri, in quello nazionale e internazionale. La forza di don Mario era che i libri riusciva sempre a farli dall’inizio alla fine, dall’ideazione alla consegna, intra moenia, in piena autonomia e in tempi snelli, senza inutili lungaggini. Una fucina, un laboratorio attivo tutti i giorni, festivi compresi. Un bell’esempio di questo ‘miracoloso’ lavoro è stato ricordato da Vittorio Polito in Baresità e… maresità (2008).
Il rapporto di Mario Cavalli con le Istituzioni è stato di stima, disponibilità e credito, quest’ultimo acquisito realizzando lavori con precisione, scrupolosità e rispettando i tempi di consegna: ogni fase del percorso lavorativo avveniva all’interno dell’azienda, consentendo al cliente di poter cambiare in corso d’opera lo scritto, in modo che il testo accogliesse le ultime esigenze e notizie. Si proprio notizie perché tante sono state le testate locali o riviste stampate dalla sua azienda. Sia con i clienti che con i fornitori (i rappresentanti delle varie Cartiere, o aziende del settore, consideravano un patto scritto la stretta di mano di don Mario) il ‘credo’ per cui era stimato: onestà assoluta e rispetto della parola data. Non solo Comune di Bari e Regione Puglia, fin dal suo sorgere, ma anche la Società di Storia Patria per la Puglia, l’Archivio di Stato di Bari e l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Bari sono stati interlocutori della Levante di Cavalli.
Schivo e restio, saggio di quella saggezza popolare che non ti insegna nessuno se non ce l’hai dentro, retto di rettitudine morale, inflessibile per una sorta di rigidità etica, come se la moralità perdesse qualcosa a essere morbida, faticatore in prima persona e tutti i giorni dell’anno. Severo e sereno ad un tempo, signorile e risolutivo, positivo, pronto ad appianare le difficoltà e a trovare soluzioni. Un grande e tenace lavoratore che amava circondarsi di grandi lavoratori. E soprattutto un «editore disposto a rischiare con la creatività» (Nigro, 2004). Più «attento ad ascoltare più ancora che a dire» (Pisicchio 2004), don Mario non parlava molto, era laconico, di poche parole, ma essenziali, senza girarci intorno. Alcune sue frasi lapidarie le ha ricordate Vito Maurogiovanni in Come eravamo (2005, p. 9): «Lì non hai parlato di quel luogo, qui manca il personaggio, vedi di metterci un po’ più di calore», «Non ti preoccupare, quelle pagine andranno». Un’altra l’ha ricordata Politο (2008, p. 5): «vedremo quello che si può fare», che era difficile da fare e che naturalmente fu fatto.
A me ne sono rimaste impresse altre. «Lo sai anche tu - mi disse una volta - il tuo ambito è difficile, di nicchia. Non ci aspettiamo grandi vendite. Ma su di noi puoi contare». E un’altra volta di punto in bianco, mentre impacchettava meticolosamente alcuni libri da spedire agli autori: «Vedi quelli?». «Ma chi? Gianni e Lello?».
«Lavorano sodo, non si risparmiano mai. Quando io non ci sarò più, continua a lavorare con loro, voglio dire con noi». Con “noi” voleva certo dire anche con Irene, la battagliera, la filosofa, riservata e ad un tempo amabilmente pungente e ironica e con Piero, medico umanista, come quelli di un tempo, appassionato di libri ma anche di nettari e di hedysmata, e sosia di don Mario, nel volto e nel temperamento sorridente, mite e saggio. Assenti nel quotidiano erano, comunque, presenze rassicuranti nella squadra Cavalli, che includeva anche altri congiunti, perché quella Levante era una delle ultime compatte squadre familiari, attorniata da validi e fidati addetti ai lavori, in un certo senso familiari, nel senso che vi uscivano da pensionati, anche loro.
Don Mario era laconico anche nelle Premesse, di regola sobriamente senza titolo. Un bell’esempio sono le due pagine scritte per la nuova edizione del 2004 del libro di Michele Campione, Ehi, Joe! uscito la prima volta nel 1987. In sintonia con il taglio autobiografico del volume, anche le due pagine sono autobiografiche a partire dall’autoritratto abbinato al ritratto parallelo di Campione: «Michele Campione a Bari, la Bari del dopoguerra, era il giornalista ed io la carta stampata (nel senso più vero della parola)». Don Mario confida anche un momento in cui si era sentito «emarginato», ma precisando prontamente «a torto» e riconoscendo il «grandissimo amore» mai mancato nei suoi riguardi. E coglie poi l’occasione per informare che nella nuova edizione di Ehi, Joe! è stato aggiunto un capitolo nuovo inedito (“Una domenica di aprile del ’43”), utile tra l’altro da rileggere oggi. Don Mario profitta per una sua chiosa etica: «Un essere umano non deve mai perdere quella dignità di comportamento tipica di un uomo libero, ma deve sempre rispettare un avversario, un rivale… perché la vita scorre e ritorna».
Spartano era anche lo spazio dove lavorava, tutti i santi giorni dell’anno, senza riposo. Un «grande antro» come l’ha chiamato Rino Bizzarro in Bari così (2015, p. 29), o, come io stesso ho detto in quel medesimo libro (p. 39), le «viscere» del suo palazzo, uno «strano piano terra inclinato all’ingiù, come la pancia di una nave. Don Mario scendeva nel ventre della sua nave, come un capitano d’altri tempi, e ci restava sempre insieme alla sua squadra, tenendola d’occhio. Sorvegliava in piedi, come se farsi scoprire seduto fosse una debolezza. E se proprio aveva bisogno di sedersi per lavorare meglio usava, e come lui i suoi figli, ‘sgabelloni’ alti, come tacchi a spillo, perché anche star seduti non fosse sentito come una comodità».
Quello spazio oggi lo chiameremmo più modernamente un open space, uno spazio in cui tutti erano visibili a tutti il che rendeva pari tutti quelli che ci lavoravano, dal primo all’ultimo, accomunati da un forte senso del dovere. Un luogo spoglio, essenziale, ma grande abbastanza per riuscire a contenere gigantesche macchine all’avanguardia, fra le quali non mancavano cimeli storici, come un’arcaica linotype.
Delle une e degli altri andava fiero, orgoglioso. E a ridosso delle macchine svettavano geometriche e mastodontiche pile di libri con copertine sgargianti e pregiate illustrazioni a colori. Tanta sontuosità delle macchine di ultima generazione e delle corpose pile di libri strideva con la frugalità dell’open space e con le spartane postazioni di lavoro. Tanta spontanea abnegazione francescana aveva un carisma quasi religioso, un profumo di lavoro che attirava persone molto diverse, ma accomunate tutte dalla voglia di fare. Quando per la prima volta varcai la grande porta vetrata in via Napoli mi colpì che in tanta superficie, lo spazio più ridotto fosse quello riservato alla rappresentanza, un cantuccio disadorno per ricevere gli autori, la prima volta che venivano, come capitò a me un pomeriggio del 1984, quando Raffaele Nigro volle presentarmi a don Mario. Quel cantuccio, come mi accorsi subito, più che per ricevere gli autori, serviva ordinariamente e proficuamente come angolo tranquillo per correggere le ultime bozze.
Quella struttura a grandi rampe quell’open - ma proprio open - space don Mario la chiamava “azienda” e come lui anche i figli ed anche noi altri che la frequentavamo imparammo a chiamarla così. Ed azienda era per davvero, luogo delle “cose da fare”, dei facienda, un latinismo poi ispanizzato in hazienda. Le cose da fare erano tante, perché un libro ha una lunga gestazione come un figlio, e venivano fatte tutte lì. E le vedevi tutte, perché erano tutte a vista. E ne vedevi anche l’evoluzione, perché man mano le tecnologie cambiavano, a volte in maniera radicale senza darti il tempo di abituarti a quelle nuove. Tra le tante cose da fare rientravano anche, anzi erano le prime, i dicenda, le cose da dire. Tra il dire e il fare nell’alveare di don Mario non c’era quasi mai di mezzo il mare. Si parlava spesso in piedi, perché le sedie erano occupate per i facienda. Ma quei dicenda in piedi erano altrettanto concreti e soprattutto creativi, erano ideanda. Molti libri sono stati ideati lì, su due piedi, fra il ticchettio delle macchine da scrivere e poi dei computer e i mormorii delle macchine per la stampa, il taglio e la piega delle pagine. Una sinfonia quasi futurista che intona rumori da lavoro.
L’azienda di don Mario era ultramoderna nell’attrezzatura ma all’antica nel modo di procedere, artigianale, nel senso nobile del termine, perché era pragmaticamente nata come Tipografia. «Era suo destino l’arte tipografica», ha scritto Vito Maurogiovanni (2005, p. 11). «Aveva l’arte tipografica nel sangue», ha ribadito Michele Cristallo (2013, p. 133). Quando l’ho conosciuta, si era già da tempo trasformata in casa editrice ed aveva pubblicato un numero incredibile di libri, molti dei quali rimasti miliari ed ormai introvabili. Le grandi rampe di via Napoli brulicavano di libri freschi di stampa, in gran parte di storia locale, di poesia e di sperimentazioni, spesso corposi e costosi, che nessun altro editore avrebbe rischiato di pubblicare. L’ultimo, ma non l’unico, grosso libro è stato Puglia mitica (2012). Ma furono sperimentati anche librini, come Sofocle Antigone (2008) e I cavalieri di Aristofane (2010) di Umberto Albini. Una vera e propria chicca fu Fragile, un estemporaneo di grande formato uscito tra il 1985 e il 1987, che meriterebbe da solo una tesi di laurea: tale testata vide come direttore responsabile Gianni Cavalli che ha sempre affermato di essersi creato tanti ‘nemici’ per gli articoli non pubblicati. Nigro che, con Lino Angiuli e Michele Lastilla costituiva la redazione, prometteva a tutti un possibile inserimento degli scritti, salvo affermare che, per mancanza di spazio, si era costretti a rinviare. Giornale distribuito in omaggio, mai stato in vendita: unico sponsor casa Levante che inseriva le copertine di libri appena pubblicati: la solita eccezione fu costituita dal volume I fuochi del Basento di Nigro, edito dalla Camunia di Raffaele Crovi… cui Gianni Cavalli aveva spedito il manoscritto.
Tra le firme prestigiose Michele Cristallo ha ricordato Manlio Rossi Doria, Leonardo Sciascia, Giorgio Saponaro, Francesco Bellino, Raffaele Nigro, Antonio Rossano, Vittore Fiore, Michele Campione, Michele Dell’Aquila, Maria Marcone, alle quali si possono aggiungere Giovanna Bemporad e Bruno Gentili, intervistato da Raffaele Nigro nella stanza di Lallo Russo all’università, con un vecchio voluminoso Nagra, che un po’ intimidì il grande professore di Urbino. Io stesso collaborai a Fragile con un breve scritto intitolato “Omero tra guerra e pace”, in cui cercavo tracce pacifiste nell’Iliade, una tesi un po’ provocatoria ma che tanti anni dopo ho ripreso in un intervento “La iras de Aquiles” al convegno del 29-30 settembre A fúria de Aquiles: as faces da guerra all’università di Aveiro in Portogallo (De Martino 2023). Intorno a Fragile nacquero anche i “Quaderni di Fragile”, fra i quali il n. 4 è una poco nota Fedra di Pino Dentico del 1986, con una mia Premessa (“L’«altrove» di Dentico”). Con Levante don Mario aveva realizzato un sogno, un sogno contagioso perché essa diventò un richiamo per altri sognatori, come Raffaele Nigro, Giorgio Scrimieri, Francesco Bellino, Ada Lamacchia, Paolo Ponzio, Nicola Basile, Tommaso Pedìo, Rino Bizzarro, Costantino Esposito, Daniele Giancane, Rodolfo di Chio, Vincenzo Starace, Franco Cipriani, Michele Campione, Vito Maurogiovanni, Pasquale Sorrenti, Vito Buono, Menico Caroli, Nicola Neri, Grazia Galante, Grazia Stella Elia, Gino Pastore, Emilio Coco, Gerardo Cioffari, Vito Lozito, Vito Melchiorre, Sante Montanaro, Joseph Tusiani, Vittorio Polito, Santa Fizzarotti Selvaggi e tanti altri fra i quali aggiungerei me stesso. Oggi molti dei loro libri sono ormai diventati cult, preziosi e difficili da recuperare.
Con Basilicata tra Umanesimo e Barocco Nigro vinse il premio Basilicata nel 1981, non molti anni prima di vincere, nel 1987, il supercampiello con I fuochi del Basento (Camunia).
Alla vigilia degli 80 anni dal primo libro del 1934 su Sant’Antonio, Michele Cristallo (2013) ha riepilogato la produzione: «Oltre duemila titoli e una serie di prestigiose collane che spaziano dalla Storiografia locale, alla Scienza, alla Letteratura, alla Narrativa, all’Arte, ai Classici greci e latini, alla Storia antica e contemporanea. Periodici di ogni estrazione culturale» e «centinaia i libri che raccontano la Puglia e il suo capoluogo», distribuiti in una ventina di collane che rappresentano gran parte dello scibile umano.
Nel 1984, quando approdai anch’io in via Napoli, provai a mettere in lavorazione libri di antichistica, un tentativo egoistico e ancora acerbo. La vera scommessa era però aprire in quell’azienda spartana e lussuosa nello stesso tempo uno spazio nuovo e libero, antiaccademico nei limiti in cui questo è possibile, per le culture antiche non solo e non tanto per me, ma per studiosi di tutta Europa sia affermati che giovani esordienti. Con un po’ di incoscienza misi in lavorazione il primo numero di una nuova collana, per la quale non avrei immaginato che sarebbe diventata un punto di riferimento: Konrat Ziegler, L’epos ellenistico, uscito alla fine del 1988. Il nome “le Rane”, lo presi da una commedia di Aristofane che affronta con molta comica serietà e senza fumi il tema della critica letteraria. Sin da subito e per un trentennio “le Rane” sono diventate una realtà degli studi classici, conosciute e citate nelle migliori pubblicazioni. Tanti gli autori di spicco fra i quali Alan H. Sommerstein dell’Università di Nottingham, Bernhard Zimmermann dell’Università di Freiburg, Carmen Morenilla Talens dell’Università di Valencia, Josè Manuel Losada Goya dell’Università Complutense di Madrid. Ma meritano di essere ricordati anche Esercizi di memoria di Giuliana Lanata (1989), La mia scuola di Manara Valgimigli con la prestigiosa premessa di Norberto Bobbio (1991), Epe di Jesper Svenbro nella traduzione di Ludovica Koch (1992), i tre grossi tomi della Lirica greca a cura mia e di Onofrio Vox e Res inauditae, incredulae. Storie di fantasmi nel mondo greco- latino (1999) e Ἔρως. Antiche trame greche d’amore (2000) di Antonio Stramaglia. Don Mario è venuto a mancare nel 2004. Ma l’azienda ha fedelmente continuato a lavorare rispettando lo spirito e l’etica del suo fondatore. La sua filosofia, dal primo all’ultimo libro, è rimasta, con grande coerenza, la stessa. L’ha sintetizzata bene Raffaele Nigro (2004): «Dare voce a chi non riusciva ad averla».
Di lui e della sua azienda oggi la nostalgia non può che essere tanta.
POSTILLA. Tra i tanti che scrissero per la sua dipartita vi fu pure chi, in modo molto pragmatico, proprio come sarebbe piaciuto all’editore, avanzò una proposta al Comune di Bari per intitolargli una via. Intitolare una strada all’ideatore e al capostipite della Levante sarebbe un bel segno di riconoscenza da parte della città ad uno dei suoi operatori più benemeriti e a lei più fedeli.
Mario Cavalli e tutta la sua famiglia sono sempre stati in prima linea nella storia culturale di Bari, ma nello stesso tempo, per scelta etica, in retroguardia. Una “Via Mario Cavalli” sarebbe perciò non solo un meritato riconoscimento ma anche un arricchimento alla straordinaria odonomastica della città di Bari.