FRANCESCO GRECO. ROMA - Cappottone e grande sciarpa rossa, la
mattina Federico Fellini faceva colazione al Bar
Rosati, a Piazza del Popolo. Ogni tanto alzava
lo sguardo dal giornale, osservava i passanti, si
soffermava sulle facce, credo. Era un
appassionato di facce. Chi mai avrebbe preso
Alvaro Vitali in “Amarcord”?
Per andare a “Olimpico”, la mia seconda redazione, in via Due Macelli (la prima era stata a Piazza Cola di Rienzo, a Prati), in centro, a due passi da Piazza di Spagna, scendevo a Piazzale Flaminio dove c’è ancora l’edicola.
Quando lui alzava lo sguardo, facevo un lieve cenno di saluto con la testa, e anche la sua risposta era quasi impercettibile, frugale. Le colleghe in redazione scherzavano: Lascia perdere il giornalismo, datti al cinema... Non dissi mai che ho sempre recitato, il mio primo ruolo era stato in terza elementare: feci Brenno, il re dei Galli che sbatte la spada sulla bilancia e chiede l’oro.
Era di legno, me l’ero fatta dal falegname dove andavo a bottega.
Ogni tanto ce lo raccontiamo con l’amico che interpretava Marco Furio Camillo: “Non auro, sed ferro recuperanda est patria!”. Latinorum. Una mattina d‘inverno mi decisi e mi fermai: Le posso mandare la mia foto?, chiesi timidamente.
Fellini alzò lo sguardo, esitò, mentre il mio indugiava sulla tazza vuota del suo cappuccino, poi parlò: Portala a casa nostra, in via Margutta. Le feci al primo automatico che trovai, 4, in Piazza Indipendenza, credo. Ma me la presi comoda, quando sei ragazzo non hai fretta. Per un po’ di giorni non lo rividi più. Pensavo fosse a girare “Il viaggio di G. Mastorna”.
Una mattina, ancora assonnato, la bocca impastata, ero al bar di via Catania a bere il mio caffè, tenevano la radio accesa su una mensola: “E’ morto Fellini”. Era il 31 ottobre 1993 (una domenica, 9 anni prima, stesso giorno, 1984, era morto Eduardo De Filippo).
Mi andò di traverso, finii di bere e me ne uscii in fretta. Il vecchio barista col grembiule lindo mi osservò come fossi un tipo strano. Andai alla fermata dell’autobus a Piazzale delle Province. Potevo essere il nuovo Mastroianni. Peccato!
Per andare a “Olimpico”, la mia seconda redazione, in via Due Macelli (la prima era stata a Piazza Cola di Rienzo, a Prati), in centro, a due passi da Piazza di Spagna, scendevo a Piazzale Flaminio dove c’è ancora l’edicola.
Quando lui alzava lo sguardo, facevo un lieve cenno di saluto con la testa, e anche la sua risposta era quasi impercettibile, frugale. Le colleghe in redazione scherzavano: Lascia perdere il giornalismo, datti al cinema... Non dissi mai che ho sempre recitato, il mio primo ruolo era stato in terza elementare: feci Brenno, il re dei Galli che sbatte la spada sulla bilancia e chiede l’oro.
Era di legno, me l’ero fatta dal falegname dove andavo a bottega.
Ogni tanto ce lo raccontiamo con l’amico che interpretava Marco Furio Camillo: “Non auro, sed ferro recuperanda est patria!”. Latinorum. Una mattina d‘inverno mi decisi e mi fermai: Le posso mandare la mia foto?, chiesi timidamente.
Fellini alzò lo sguardo, esitò, mentre il mio indugiava sulla tazza vuota del suo cappuccino, poi parlò: Portala a casa nostra, in via Margutta. Le feci al primo automatico che trovai, 4, in Piazza Indipendenza, credo. Ma me la presi comoda, quando sei ragazzo non hai fretta. Per un po’ di giorni non lo rividi più. Pensavo fosse a girare “Il viaggio di G. Mastorna”.
Una mattina, ancora assonnato, la bocca impastata, ero al bar di via Catania a bere il mio caffè, tenevano la radio accesa su una mensola: “E’ morto Fellini”. Era il 31 ottobre 1993 (una domenica, 9 anni prima, stesso giorno, 1984, era morto Eduardo De Filippo).
Mi andò di traverso, finii di bere e me ne uscii in fretta. Il vecchio barista col grembiule lindo mi osservò come fossi un tipo strano. Andai alla fermata dell’autobus a Piazzale delle Province. Potevo essere il nuovo Mastroianni. Peccato!
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Cultura e Spettacoli