Perché uccidiamo i nostri simili? Konrad Lorenz prova a spiegarlo
FRANCESCO GRECO - “Considerato come specie, l’uomo, nello stesso lasso di tempo che gli è occorso per diventare signore della terra, non ha compiuto il più piccolo passo avanti per diventare signore di se stesso”.
Siamo aggressivi come forma di difesa, per istinto di sopravvivenza, riflessi pavloviani che scattano in automatico , oppure la nostra aggressività è da definire fra le tante, infinite patologie che l’uomo si porta addosso dagli albori delle civiltà?
Un interrogativo pesante, escatologico, polisemico, dalle implicazioni prismatiche. Che solo una grande mente come Konrad Lorenz (1903-1989, Premio Nobel per la Medicina nel 1973) poteva approcciare con qualche possibilità di rimodulazione, lontano da letture retoriche, demagogiche, consolatorie.
Lo fa in “L’uccisione dei propri simili”, Piano B Edizioni, Prato 2024, pp. 140, euro 16.00, traduzione di Alvise La Rocca.
Il padre dell’etologia moderna, acuto osservatore del comportamento animale, dei loro sentimenti, con le sue “visioni” ha ridato una nuova filologia non solo alla biologia, ma anche studiato le implicazioni nella psicologia e la sociologia. Traslando tutto al genere umano.
Anche se l’uomo è assai più complesso delle oche, avendo un background culturale e genetico che determina i suoi comportamenti, aggressività inclusa. Che, osserva lo scienziato, si riversa verso gli altri, con evidenti rischi per la sopravvivenza stessa della comunità.
Lo sguardo dell’etologo è pessimista. Denuncia le criticità del comportamento dell’uomo e dei popoli, ma quando si tratta di passare alle indicazioni come rimedio e correzioni dei vulnus, com’era prevedibile, non intravede lo scarto, la luce in fondo al tunnel. Passare dalla sociologia alla genetica (lo aveva già detto fra gli altri Desmond Morris) è un’impresa titanica. Il cammino ancora lungo e ispido. E’ bene perciò non farsi tante illusioni e continuare a lavorare sul tema.
Siamo aggressivi come forma di difesa, per istinto di sopravvivenza, riflessi pavloviani che scattano in automatico , oppure la nostra aggressività è da definire fra le tante, infinite patologie che l’uomo si porta addosso dagli albori delle civiltà?
Un interrogativo pesante, escatologico, polisemico, dalle implicazioni prismatiche. Che solo una grande mente come Konrad Lorenz (1903-1989, Premio Nobel per la Medicina nel 1973) poteva approcciare con qualche possibilità di rimodulazione, lontano da letture retoriche, demagogiche, consolatorie.
Lo fa in “L’uccisione dei propri simili”, Piano B Edizioni, Prato 2024, pp. 140, euro 16.00, traduzione di Alvise La Rocca.
Il padre dell’etologia moderna, acuto osservatore del comportamento animale, dei loro sentimenti, con le sue “visioni” ha ridato una nuova filologia non solo alla biologia, ma anche studiato le implicazioni nella psicologia e la sociologia. Traslando tutto al genere umano.
Anche se l’uomo è assai più complesso delle oche, avendo un background culturale e genetico che determina i suoi comportamenti, aggressività inclusa. Che, osserva lo scienziato, si riversa verso gli altri, con evidenti rischi per la sopravvivenza stessa della comunità.
Lo sguardo dell’etologo è pessimista. Denuncia le criticità del comportamento dell’uomo e dei popoli, ma quando si tratta di passare alle indicazioni come rimedio e correzioni dei vulnus, com’era prevedibile, non intravede lo scarto, la luce in fondo al tunnel. Passare dalla sociologia alla genetica (lo aveva già detto fra gli altri Desmond Morris) è un’impresa titanica. Il cammino ancora lungo e ispido. E’ bene perciò non farsi tante illusioni e continuare a lavorare sul tema.