Altamura. Il suicidio, piaga invisibile dell’'isola felice'

(la Puscin, luogo memoria nei dintorni del Polivalente)
ROBERTO BERLOCO - Altamura. Suicidio. Una parola che incute forte timore e che si dichiara con fatica, bisbigliandola piuttosto che pronunciarla, anche quando l’evento non si verifica. Un termine che, da solo, tiene il potere di raccontare molto, financo tutto.

Risale a fine Novembre scorso l’ultimo atto di disperazione, quello di un esercente veracemente altamurano che si è ucciso lanciandosi da un piano alto del proprio edificio. Gran lavoratore, marito e stimato padre di famiglia, Michele, nome di fantasia, ha deciso di togliersi la vita, sorprendendo i propri cari e tutti coloro che lo conoscevano, fuor che sé stesso.

I casi in paese, dall’inizio del nuovo millennio ad oggi, perlomeno quelli dei quali è dato di portare comune memoria, sono diversi e sorretti da cause differenti, ma tutti accumunati dalla persistenza di un dolore insopportabile, originato da un muro di buio che si frappone alla luce della vita e della sua speranza. Come diversi sono i modi scelti per porre fine alle proprie angosce. Anni fa, un giovane imprenditore, intelligente, gentile di animo e di aspetto, dinamico e capace nel suo buon fare, poggiò la testa sopra la rotaia di un binario delle Ferrovie locali e lì la tenne fino a che il primo treno in corsa non la falcidiò, a prova che certo dolore è più forte di ogni paura e di qualunque sofferenza fisica. Qualche tempo dopo, un giovanissimo commerciante si affidò all’antico metodo dell’impiccaggione, chiudendosi in una stanza della propria casa, per garantirsi la sicurezza che nessuno potesse salvarlo.

Ma il passato più remoto di Altamura svela che si era perfino sviluppata una consuetudine, quella di gettarsi dall’imbocco della “Puscin” (versione vernacola del vocabolo “Piscina”), una capiente vasca in pietra per la raccolta delle acque piovane che si trova tutt’ora nei pressi dell’attuale Polivalente. Laggiù, ad una decina di metri dal piano di superficie, sul fondo di quello che pare quasi un sepolcro etrusco, oggi perfettamente sigillato e impenetrabile, trovava finalmente pace anche chi non riuscisse a pagare una cambiale, o chi, oberato di debiti, dopo aver bussato a tante porte, aveva visto aprirsi solo quella della morte. Oppure, ancora, qualche cuore più sensibile e fatto per esser libero, come quello della diciannovenne che rappresentò l’ultimo caso della serie per la storia di questo luogo. Erano i primi anni ’60, quando, un giorno di Primavera, una bella ragazza dalla bionda chioma, allontanatasi dai genitori che non volevano permetterle di coronare la sua felicità con l’uomo che amava, raggiunse l’imbocco della struttura e vi si adagiò seduta. Alcuni bambini, che erano lì a giocare, si accorsero subito delle sue intenzioni e cercarono di fermarla a gran voce. Per tutta risposta, ella si volse loro così redarguendoli: “non fate mai quello che farò io adesso”. E si gettò, annegando di lì a poco, malgrado un tentativo di salvataggio da parte di alcuni militari di passaggio, allertati da quegli stessi piccoli che erano finiti testimoni di un episodio destinato a restare impresso per tutta la loro esistenza.

La depressione. Questa silente bestia invisibile, o, se si vuole, quel particolare stato dello spirito che invasa l’interiorità al punto da soffocarla, avvalendosi di circostanze e mille, intime ragioni, nel loro insieme capaci di una pressione inesorabile sull’agire personale, che finisce per non trovare più alcuna via di fuga.

E, laddove si voglia approfondire, il ventaglio dei fattori di rischio si apre ampio e variegato. Partendo da quelli che la scienza medica chiama biopsicosociali, come tendenze impulsive o aggressive, fenomeni psichiatrici, insofferenza compulsiva, agitazione, insonnia ricorrente, rimorsi incontenibili, delusioni cocenti, senso di oppressione o disperazione; per continuare con quelli ambientali, come disagio economico, stato di povertà, perdita del posto di lavoro; e, per concludere, con quelli socioculturali, come emarginazione, esclusione, solitudine, abbandono, assenza di sostegno sociale, persuasioni originate dalla fede religiosa e o da particolari credenze spirituali. A dirla tutta, esiste anche una ultima fattispecie, che, però, non rientra tra quelle ammesse negli elenchi accreditati dai camici bianchi: il maleficio di origine diabolica. Un evento di natura straordinaria che colpisce raramente e senza colpa di chi ne viene colpito, con la violenza della possessione o di terribili vessazioni. Un fenomeno che può portare pure al suicidio, se non si ricorre a sedute di esorcismo, frequenza dei sacramenti, digiuni, rinunzie, preghiere di liberazione e un costante percorso di grazia.

D’altronde, di fronte a certi avvenimenti, neppure sembra portare soluzione la tradizionale impostazione cristiana della società altamurana, tanto più se si tiene conto che, tempo addietro, eguale sorte toccò pure ad un energico e vitale sacerdote. Come non sembrano esercitare attrattive per le future vittime di sé stesse, neanche le mani tese di medici o di esperti in mal dell’anima. 

Il dato della costanza, per quello che potrebbe essere definito estremo rimedio, viene cristallizzato anche dai dati Istat a livello nazionale: a partire dalla fine dell’emergenza Covid, la media si conserva stabile tra i 3.000 e i 4.000 casi per anno, con una preoccupante crescita di quelli di piena gioventù e fino alla mezza età.

E’ poi vero che Dante degli Alighieri destini i suicidi all’Inferno, raggruppandoli nel secondo girone del settimo cerchio. Ma il suo, per l’epoca nel quale era immerso e per la fede della quale era pervaso, pare quasi un atto dovuto, una sorta di inchino ai voleri di quella Divina Provvidenza di cui egli si faceva Vate ad ogni strofa vergata, ad ogni quartina resa a servigio dell’Onnipotente. Chissà se oggi, considerando il vuoto di valori e di princìpi che permea l’età contemporanea, serberebbe lo stessa determinazione, oppure convertirebbe in pietà la propria condanna.

Un epilogo, di mitigare la gravità dell’atto quanto meno per un umano istinto di compassione, che la stressa Chiesa di oggi fa assolutamente proprio, pur conservando intramontabile il principio di peccato grave, classificando il suicidio a dichiarato gesto di negazione della vita come dono di Dio. Pur lasciando l’ultimo giudizio solamente a Questi, è infatti pratica attuale di celebrare una Messa di esequie, a patto però che siano avverate determinate condizioni, ossia che manchino la “piena avvertenza” e il “deliberato consenso” da parte del suicida.

“Abbiamo cercato di mettere a tacere il pensiero della morte, in verità è impossibile per noi raffigurarci la nostra stessa morte”. Così, Sigmund Freud offriva una rappresentazione laconica del fenomeno, lasciando intendere quanto questo tenesse a che fare con quello opposto, legato alla lotta impotente per la vita, per una che, cioè, non soffrisse di un finale certo e inspiegabile. 

Di sicuro, di faccia ad una tale ricorrenza, che vela di tristezza una delle poche urbanità che, nel Meridione d’Italia, brilla per la propria economia e per le qualità di attivismo dei propri cittadini, rimane sul tappeto quasi un senso di misteriosa attesa, come a voler cercare tempo per spiegarsi la marcia di un gesto umanamente comprensibile, ma razionalmente inammissibile. E, comunque, senza ergere diga a quel fiume di reale e profondo rispetto verso la memoria di queste persone, come, alla maniera di una giovane quercia che simboleggi speranza destinata a durare, è un augurio di pace vera la miglior posta da inoltrare alle loro anime.

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