L’angelo di Natale

DELIO DE MARTINO - Un brivido di freddo percorse la gamba e lo obbligò a svegliarsi. Quella mattina di dicembre il gelo penetrava dal vetro della finestra tra le prime luci dell’alba. I raggi del sole incerti tra la foschia erano dei fasci umidi capaci di forare il tepore della lana delle coperte. Era una mattina uguale a tante altre eppure diversa. Appena aprì gli occhi si ritrovò un groviglio di pensieri che schiacciavano il petto. Voci confuse nella testa senza parole che farfugliavano. Cercò di zittirle ma ogni sforzo si trasformava in un ulteriore peso sui polmoni. Si alzò di scatto per cercare il vigore della mente e del corpo. Tre quattro passi fino alla finestra e nel torpore del corpo e della mente intravide l’unica via di vigore. Strisce di luci appese sulla strada di fronte bucavano la foschia del mattino e preannunciavano il Natale. Avvicinò gli occhi alla finestra e sentì le vibrazioni: una musica di Natale scampanellava nell’aria facendo tremare il cristallo che lo separava dall’aria gelida di fuori.

Era quella l’unica possibilità per sottrarsi almeno quel giorno alla nebbia delle preoccupazioni di tutto l’anno. Quanto meno quella mattina non voleva rimanere schiacciato dal coacervo dei neri pensieri che si rincorrevano tra loro dandosi manforte.

Uscire e andare incontro ai punti di luce di Natale nell’aria incerta era la via di fuga di quella giornata cominciata che minacciava di essere troppo uguale alle altre. Fece colazione e si vestì il più velocemente possibile con la sottile paura di perdere le vibrazioni di quelle luci e di quelle musiche di Natale. Pochi minuti ed era pronto. Gettò l’ultimo sguardo alla finestra per poi correre alla porta di casa. Le luci c’erano e la foschia sembrava sul punto di cedere nella lotta contro i led natalizi. Corse alla porta e si infilò nell’ascensore. Aprì il portone e cominciò a camminare. Non se n’era accorto ma il sole dritto negli occhi lo costringeva a tenere basso lo sguardo sulle mattonelle del marciapiede e sull’asfalto. Poco importava. La direzione era quella giusta. Andare verso quei negozi e trovarsi illuminato gli avrebbe dato la carica per quella giornata, per quegli ultimi giorni di dicembre e chissà forse per tutto l’anno seguente. Affrettò il passo finché si accorse che era arrivato prima di quanto sperava. Attraversata la strada era proprio lì sotto. Doveva solo alzare lo sguardo e guardare il lungo filare di luci che bordava tutta la strada a perdita d’occhio. Alzò lentamente pregustando il sapore di quella somma luce. Ma nulla. Strizzò gli occhi e li richiuse tre volte per esserne sicuro. Si doveva rassegnare. Le luci erano fili esangui. Spenti come cadaveri di una festa finita prima di cominciare. Le lampadine si stendevano tristi e sbiancate, senza un minimo di luce. Persino la luce intorno le faceva sembrare ancora più buie. Chiuse gli occhi per gustarsi almeno le musiche che da casa lo avevano attirato fino a quel corso. Ma di nuovo nulla. Nulla di nulla. Era come se avesse ovatta nelle orecchie e negli occhi. Non poteva.

Continuò a camminare in fondo dove ancora intravedeva un minimo di luci accese. Continuò per altri 100 metri e girò improvvisamente a destra da dove sospettava che fosse. Alzò di nuovo gli occhi. Un lampo e le luci si spensero con la stessa tristezza delle precedenti. Aveva immaginato quel lampo di luce o si erano davvero spente al suo passaggio? Doveva controllare se davvero la sua presenza aveva quell’effetto. Alzò il passo sempre di più e si ritrovò a correre. Correva verso qualche altra luce nella speranza che potesse finalmente premiare gli occhi con quello che aveva visto dal balcone. Ormai stava correndo il più possibile. Le gambe sotto sforzo per la corsa lo portarono all’ultimo angolo. Era la prova decisiva. Si girò di scatto e di nuovo lo stesso. Un lampo e poi il nulla. I led si spegnevano con tanta decisione al suo passaggio che iniziò a gettare sguardi di odio. Davanti a lui al centro della strada una struttura in legno su cui si arrampicavano le luminarie raffigurava un pacco regalo. Un attimo e anche quello si ritrovò spento. Senza luci era uno scheletro di un Natale che non sarebbe mai cominciato. Si avvicinò a pochi centimetri e gettò una mano su quello scheletro. Lo stesso gelo che l’aveva svegliato. Era passato dalla mano alla gamba e poi di nuovo era risalito fino in gola. Quelle lampadine da cui sperava giustizia gli stavano rendendo grazia. Invece di caricarlo gli stavano strappando l’ultimo spirito vitale. Il respiro si fece affannato. Un calcio a quello scheletro, a quelle luci traditrici, a quelle note che avevano smesso di vagare nell’aria al suo passaggio. Solo un calcio ma ben assestato accompagnato da un urlo capace di coprire tutte le note che non poteva sentire. Quella sarebbe stata l’unica vendetta. Da mostrare a tutti. Ma l’avrebbero preso per pazzo. Doveva rinunciare. Però doveva sfogare la mente in qualche modo. Riprese a camminare con fiato. Un ultimo passo e decise di infilarsi nel primo negozio dell’angolo. Doveva dimenticare tutta la somma oscurità che quelle luci gli avevano gettato addosso. Dov’era entrato? Sembrava un negozio grande ma senza ordine, quasi un magazzino di un bazar. Camminava lungo i lunghi corridoi.

Si avviò verso il punto più luminoso, dove un’aura meno grigia lo attirava promettendolo di distrarlo. Di che si trattava? Sull’espositore sembravano vecchi giocattoli, forse d’epoca o abbandonati. Né tanto vecchi da essere di pregio né tanto nuovi da essere veramente vendibili. Eppure avevano qualcosa di familiare, di intimo, come se fossero pezzi di una vita vissuta da non troppo.

Avvicinò il dito al primo. Un modellino di un’auto blu, una berlina a tre volumi con la carrozzeria polverosa eppure elegante. Un flash e i fari si accesero facendo brillare la polvere del negozio. Accarezzò il cofano e una voce ruppe il silenzio: «Non ti ricordi? Eppure ti conosco da tanti Natali». Ma certo era lei. L’automobilina che gli era stata regalata il natale del 1994. Era l’auto che gli prometteva che la vita sarebbe stata una lunga corsa sulle strade dorate dell’adolescenza e dell’età adulta. L’aveva ricevuta in regalo quel Natale in cui erano tutti a casa di Lina. Iniziò a nevicare. Quando uscirono per tornare a casa il giardino si era trasformato in un bosco. La neve era durata solo quella notte, eppure non l’avrebbe mai scordata, come non si scorda la prima neve. «Si mi ricordo benissimo. Sei il modellino in acciaio che trovai sotto l’albero quando avevo 10 anni». I fari lampeggiarono ancora accompagnati dalle luci arancioni delle quattro frecce. «Esatto, sono proprio io». «Ma dov’eri rimasta? È da tanto che non ti vedo in giro». «Appunto dovresti guardare meglio in giro. Sono in compagnia. Guarda chi c’è intorno». girò la testa a destra e a sinistra: «una scacchiera con tutti i pezzi in disordine, una tazza con babbo Natale e gli elfi, un telefonino tutto illuminato. E poi un maglione rosso con delle renne, un angelo di ceramica che reggeva con una candela un libro vermiglio con la scritta dorata Canto di Natale di Charles Dickens e tre spiritelli del Natale a rilievo». «Ma ci siete tutti, tutti i regali del passato». «Sì esatto». «Ma dov’eravate finiti? Come siete finiti qua?» domandò incuriosito. «In realtà non siamo qua. Anzi siamo qua e siamo altrove» rispose l’auto che nel frattempo aveva illuminato con i fari tutti gli altri giocattoli. «Ma perché? Perché siete comparsi adesso tutti insieme? E soprattutto perché ad ogni passo si spengono le luminarie? Perché non riesco a sentire una sola nota delle musiche di Natale? Potete fare qualcosa?».

Il modellino aprì il cofano e ostentò un motore di plastica con tubi di metallo che sporgevano e si contorcevano come i capelli di Medusa. «Guarda dentro di te. Un tempo io con tutti gli altri eravamo la luce di tutto. Ero il riflesso di tutto ciò che potevi immaginare. I viaggi verso le montagne, verso le città più decorate del mondo verso i giardini più rigogliosi, le spiagge in cui ogni granello prometteva la felicità. Un mondo così grande e inesauribile da scoprire un secondo alla volta restando senza parole ad ogni sgasata». «È vero. Perché è cambiato tutto? Perché ogni giorno è uguale all’altro e il mondo ha smesso di girare? Che è successo dopo?». L’auto chiuse il cofano del motore: «Giorno dopo giorno la polvere si è posata su di me e su tutto. Prima un sottile strato quasi invisibile. Poi un altro velo e un altro ancora. Finché pulvis et umbra hanno avvolto me. La polvere si solidifica, si impasta con la noia, l’oblio e diventa l’alimento dei mostri più invisibili e pericolosi. Molto più spaventosi dell’Idra del diorama di Ercole che ti avevano regalato nel Natale del 1998».

«È vero c’era anche lei». Gettò uno sguardo e la cercò tra gli altri giocattoli. Pochi secondi e la trovò. Era in fondo ma faceva ancora capolino davanti allo sguardo attonito di Ercole con la spada sguainata, spaventato ma sicuro di sconfiggerla. «Ma adesso che posso fare? È troppo tardi».

«Avvicinati. Prendimi e sollevami» «Va bene». La sollevò e la portò all’altezza degli occhi. «Adesso soffia la polvere del passato. Credi in me adesso come allora».

Socchiuse le labbra e soffiò con tutta la forza che aveva. Una nuvola bianca si sollevò e avvolse tutto. Sentiva l’auto vibrare con la forza del suo motore. Intravedeva solo le luci abbaglianti ancora di più di quanto avesse mai potuto immaginare. Lo costrinse a serrare gli occhi mentre il rombo del motore urlò per poi scemare con la dolcezza di un canto di Natale.

Aprì gli occhi e una somma luce lo travolse tra note di Natale sparse per l’aria di festa: un angelo di luci suonava le trombe d’oro della solarità.