Natale come Black Friday, regaliamoci la speranza

FRANCESCO GRECO - I centri commerciali ammonticchiano panettoni e pandori già a fine agosto. A settembre in rete comincia a girare la compilation di cover natalizie: da Mariah Carey a George Michael (Last Christmas). A ottobre vai con le decorazioni: nelle case, le vie, le piazze, i negozi, etc.

Vedi alla voce kitch: regna sovrano. Anche con alberi e presepi pacchiani, orrendamente contaminati. Ma questo è solo accessorio, propedeutico alla tragedia: si è dissolto il mistero del Bambino che nasce in povertà, in una grotta.

Natale è ormai puro marketing, una festa commerciale, identificato col regalo da fare, da ricevere, da riciclare. Chi ricorda quelli di una volta, annunciati dalle auto a noleggio che tornavano cariche di emigranti prelevati alle stazioni, anche pensare che nasce il regalo non un Bambino, è squallido.

Il Papa ha ammonito anche contro questa sovrapposizione.

Il consumismo è una nuova fede: lo aveva intuito Pasolini mezzo secolo fa. Un tempo si cominciava a respirare l’aria di festa verso l’Immacolata. Annunciata dall’odore delle pittele (frittelle) che friggevano nell’olio novello appena spremuto nei frantoi a pietra.

Oggi più che Natale pare un’estensione dei Black Friday: fine della magia, relativismo ovunque, negli interstizi del presente. Acquisti, code, sconti, regali da cui passa un’estetica spesso lacerante, addensata di semantica posticcia. Nel senso che il dono può anche offendere se chi lo riceve non lo apprezza, se riciclato. Amicizie si sfaldano, famiglie in frantumi, gente col muso, l’aria offesa: una tragedia.

Ciò che addolora, si ripete, è il relativismo sul mistero di una nascita, messo sulla sfondo. Forse anche per questo sui social c’è gente che vorrebbe bypassare tutto e sbarcare al 7 gennaio.

Quest’anno poi cade fra le guerre, reali e in nuce e nuovi virus, il lavoro che sfuma, salari e pensioni da fame, gente che mangia alle mense della Caritas, tanti che non si possono curarsi. I media dipingono una realtà che non esiste. E venti di guerra futuri (leva obbligatoria, aerei da guerra in lavorazione, un’acre fetore di fascismo). Mentre c’è già chi scava le fosse per i morti che verranno. Una sconfitta per tutti.

Voglia di festeggiare posticcia, tutto appare forzato. Una delle infinite contraddizioni del nostro tempo che le luci nelle case, le piazze addobbate, i concerti, i pranzi e tanto buonismo non riescono a relativizzare.

Luci poche, comunque: qui a Roma in periferia (Tiburtina, Prenestina, Casilina, Tuscolana, etc.) scarse. Come al Sud: Potenza, Matera, Bari, Taranto, Brindisi, Lecce.

Sta a noi regalarci un Natale di speranza. Ma la speranza dobbiamo darcela da soli, non aspettarcela dai fighetti politici che appaiono in tv e sui giornali (quelli “Faremo, faremo… “ e poi o non fanno nulla o peggio devastano la nostra amata Terra) e dai loro giornalisti che hanno quello sguardo colmo di luce del cagnolino che ha ricevuto il biscottino ansiosi di coccole.

E che la speranza sia ancora viva lo dimostriamo raccontando un episodio. Mattinata di ieri, scendiamo a Lecce, città deserta, davanti alla Questura una piccola folla di migranti in coda per il permesso di soggiorno (quelli che non hanno voglia di lavorare, colazione, pranzo e cena).

Entriamo in Stazione, sala d’attesa: aspettiamo la littorina e intanto si ricarica il cellulare. In un angolo un ragazzo nero dorme sotto una coperta. Arriva una ragazza col suo trolley, ha fatto il biglietto, timbrato e va al bar per un caffè. Torna dopo un po’ con un due sacchettini e un’acqua. Posa tutto a terra, accanto al ragazzo. Tira delicatamente la coperta da un lembo e se ne va. Il migrante si scuote, prende i cartocci e la bottiglietta e li posa in un angolo. Si alza, è magrissimo, quasi senza fianchi, raccoglie la coperta, si siede. Mangia lentamente un panino mozzarella e pomodoro, poi il cornetto, beve a piccoli sorsi. Si alza e va a buttare le cartacce nel cestino. Poi riflette un pò, rifà l’operazione inversa. Stende la coperta, vi si avvolge e riprende a sonnecchiare.