A Sammichele di Bari il prof. Filippo Boscia magnifica il lavoro di un artista del legno: lo scultore Giuseppe Vittore
LIVALCA - “La parola del legno/non è uniforme,/è una polifonia/di rumori ardenti/
che hanno come diapason/le foglie mosse dal vento” questi magnifici versi di Alda
Merini sono un giusto riconoscimento a quella materia che si trova sotto la parte del
tronco e dei rami degli alberi appena oltre lo stato corticale.
Impiegare questo materiale per la creazione di opere d’arte è una prerogativa delle civiltà più remote: in Egitto i sarcofagi erano in legno pregiato, il cui esterno era dipinto in modo da rappresentare il ritratto di colui che era stato sepolto, come i mobili e altri oggetti di arredamento che potevano essere valutati come autonome opere di valore artistico. Anche i Romani e i Greci hanno sempre creato statue lignee, a volte di immagini votive, il cui compito era non soltanto decorativo, ma spesso rispondeva a reali esigenze di architettura e arredamento: esempio le porte delle chiese di Santa Sabina (Roma), di San Pietro nel sito archeologico di Alba Fucens (Aquila) e di Sant’Ambrogio (Milano).
Bisogna comunque approdare nel Rinascimento per annotare come artisti famosi in tutto il mondo avessero realizzato autentici capolavori in legno: Filippo Brunelleschi un magnifico “Crocifisso” che si può ammirare nella cappella Gondi di Santa Maria Novella in Firenze, un legno policromo di cm. 170x170; prima di lui aveva realizzato un “Crocifisso” Donatello, la cui opera si trova in Santa Croce in Firenze. Si racconta che Donatello, realizzata la sua opera, chiese un giudizio all’amico Filippo, il quale non manifestò entusiasmo per usare un eufemismo. Mesi dopo Brunelleschi invitò a pranzo Donatello e gli mostrò il “Crocifisso” che aveva realizzato in quel lasso di tempo: Donato di Niccolò di Betto Bardi non potette fare a meno di constatare l’assoluta perfezione ed armonia della scultura dell’amico: era pura ammirazione e non invidia. L’aneddoto è giunto a noi per opera di Giorgio Vasari (1511-1574) che lo cita nel suo lavoro “Vite de’ più eccellenti scultori, pittori e architetti” pubblicato in Firenze forse nel 1560; nel secolo scorso Pasquale Sorrenti a lui si è ispirato per il suo “Pittori, Scultori, Architetti e Artigiani pugliesi dall’antichità ai nostri giorni” (Levante Bari, 1990).
Sammichele di Bari, paese con una superficie che sfiora i 34,00 Kmq ed una popolazione di poco superiore a 6000 abitanti, è un comune grazioso e delizioso che dista una trentina di chilometri da Bari. E’ amministrato, per il secondo mandato consecutivo, da un sindaco cinquantenne che, nelle ultime votazioni, è stato riconfermato con il 78% delle preferenze: dichiarare quindi che il rag. Lorenzo Netti sia molto amato e stimato rientra in una pura constatazione di fatto reale. Secondo testimonianze archeologiche - avvalorate da menhir ancor oggi presenti - il territorio risalirebbe al periodo denominato “Età dei metalli” e più specificamente nell’Età del Rame, che storici qualificati hanno determinato in questo modo: Età del Rame (dal 5000 al 3000 a.C.), del Bronzo (dal 3000 al 1100 a.C.) e del Ferro (dal 1100 a.C. in avanti).
Nel XII secolo è esistita nella zona una località denominata Frassineto ricollocabile ad un casale (molte carte parlano di canale) di proprietà del barone Thomas de Fraxeneto; nel 1504 il facoltoso banchiere genovese Geronimo Centurione acquistò il castello - quello in cui ai nostri giorni si trova il Museo permanente della Civiltà Contadina ”Dino Bianco” - che con l’avvento del Conte Michele Vaaz, in un periodo che va dai primi anni del 1600 fino al 1675, riuscì ad avere intorno un borgo con un definito aspetto urbanistico in virtù di un accordo firmato in Napoli nel 1619.
L’agiato mercante ebreo portoghese Vaaz stipulò un atto per la fondazione di un borgo con due deputati della ‘Università del villaggio’ che erano Leonardo Netti, sindaco, e Giovanni Marinelli, i quali erano legittimati a dar vita alla nuova intesa da una procura del notaio Musella di Casamassima. In questo accordo gli abitanti si impegnavano, con i loro congiunti, a vivere e morire su questa terra e il Conte Vaaz, da parte sua, acconsentiva a fabbricare nuove case e a cedere della terra ai residenti in modo che la coltivassero a vigne, oliveti, mandorli ed altri frutti. Quando fu stilato l’atto di fondazione fu sancito che il villaggio dovesse chiamarsi “TerraNova”, ma sei anni dopo si decise per Casa-Vaaz. Chiaramente non era un nome ‘facile’ da mandare a memoria, ma qualcuno con ingegno contadino (fare con facilità ciò che è difficile agli altri) fece presente che ricorrere a ‘San Michele’ avrebbe fatto felice la Curia Romana, ma non avrebbe ferito l’amor proprio del Conte: da Casa-Vaaz si passò a Casale San Michele. Bellissima la storia con cui la comunità riuscì a ‘procurarsi’ un sacerdote e il sapere che nel 1632 la chiesa di San Michele non disponeva ancora di un altare consacrato e per celebrare le funzioni religiose si ricorreva ad altare portatile.
Per quanto riguarda il Castello, intorno cui si è andata ampliando la parte più antica del centro abitato, divenne proprietà del barone Da Ponte (possesso attestato da una vecchia iscrizione ancora oggi visibile su un arco d’ingresso del maniero), prima dell’arrivo del duca Caracciolo di Vietri nel 1860, la cui famiglia immediatamente diede vita ad una ristrutturazione totale, che è quella giunta a noi. Va ricordato che il progetto di restauro fu dell’architetto Ascanio Amenduni di Casamassima. L’Amministrazione Comunale di Sammichele nel 1971 acquistò il castello per preservarlo e assicurarlo anche alle future generazioni.
Il professore Filippo Boscia, in una delle prime domeniche di questo inizio anno, ha voluto salutare amici vecchi e nuovi con un incontro conviviale presso il rinomato ristorante Sant’Agata, prima di dirigersi, con i ‘pochi superstiti’, verso la bottega artigiana dello scultore Giuseppe Vittore.
Lo scultore di pezzi lignei Giuseppe Vittore deve molto al noto giornalista Franco Deramo - docente di Comunicazione aziendale nei laboratori del corso di laurea ‘Scienze della Comunicazione’ dell’Università degli studi Aldo Moro di Bari - che ha raccontato una storia bella, poetica e veritiera che riguarda il giovane artista Vittore e un ‘giovane’ fragno (Quercus trojana: albero della famiglia delle ‘fugacee’ sempreverde con delle foglie dalla forma appuntita, si trova solo in agro di Bari e Lecce ed in alcune zone della Basilicata) che cresceva ai bordi di un terreno che lo scultore aveva ereditato dal padre. Deramo, peraltro autore di validi libri di cui segnalo l’ultimo a me noto “Don Valerio Profezia e Servizio” pubblicato presso la casa editrice AGA di Alberobello, ci rivela che, a partire dal 2000, Vittore scolpì in un tronco, il fragno di cui sopra, una testa di un uomo… nello scorrere del tempo appellato San Pietro, dal nome della contrada in cui l’albero era nato.
Chiaramente l’immagine con il trascorrere dei mesi e degli anni veniva ‘modificata’ dalla corteccia del fragno che proseguiva la sua normale evoluzione, cambiando i connotati dell’effige scolpita. Questo processo lento, ma inesorabile, è stato testimoniato da una serie di scatti dell’artista della fotografia Michele Savino: a Sammichele ogni angolo di terra o strada ha visto la ‘luce’ attraverso i viaggi del cuore di questo maestro che fondeva passione e mestiere in ogni ‘click’. Bisogna arrivare a novembre 2018 per constatare come la natura avesse totalmente ‘assorbito’ quel piccolo capolavoro scolpito da Vittore, fino a farlo sparire (queste ultime testimonianze per immagine si devono all’abilita e disponibilità della fotografa Mariangela Martina).
Se vi è una lezione: la natura umana è sempre incompleta, mentre quella ‘divina’ recupera sempre il proprio stato naturale: non ci resta che dar ragione al filosofo Rousseau. “Lo spettacolo della natura ci consola di tutto” (francese, ma amante del ‘legno’).
Mi dicono che se si clicca in rete il nome del giornalista Deramo e quello dell’artista Vittore potrete leggere con più dovizia di particolari lo scritto dal titolo “Giuseppe Vittore: la ferita, la bellezza, il tempo. Almeno in questa vita chi scrive rinuncia alla… ‘rete’.
Il caro amico Filippo aveva stabilito che, dopo il convivio, saremmo tutti andati presso la bottega dell’uomo che fa ‘parlare il legno’ - in via Luigi Pirandello, 33 - per verificare de visu quanta ispirazione vi fosse in queste opere di puro ingegno… frutto di genio (in)compreso (come non pensare a quella frase del filosofo svizzero Henri- Frédéric Amiel: “Fare con facilità quello che risulta difficile agli altri: questo produce l’ingegno; fare ciò che è difficilissimo, se non impossibile, alle persone d’ingegno… questa la spiegazione del genio”).
Son dovuto rientrare per esigenze di nonno e mi sono privato di questa visita in una via che già dal nome invita a riflessioni: “Pensaci, Giacomino” non è solo un ‘velato’ consiglio, come “Liolà” non solo ‘smania’ ereditaria, ma pur non avendo “Il berretto a sonagli” si è ritenuto di dar vita a “La Giara” esclamando “Così è (se vi pare)”; terminato “Il gioco delle parti” si è concordato che il “Piacere dell’onestà” è imprescindibile nonostante “Questa sera si recita a soggetto”, “Ciascuno a suo modo”ed in attesa di quel “Uno, nessuno e centomila” è lecito convenire che quei “Sei personaggi in cerca d’autore”, che sono andati in visita a Vittore guidati da Filippo, non sono “I giganti della montagna”, ma semplici seguaci di quel “Lazzaro” di Betania che fece in modo che tutti comprendessero che “Il fu Mattia Pascal” era stato quasi costretto a vincere alla roulette di Montecarlo perché, lui che viveva in Liguria, poco sapeva di quel piccolo gioiello chiamato Sammichele, luogo in cui “I vecchi e i giovani” ignoravano l’esistenza di “Amori senza amore” e “Novelle per un anno” erano liete narrazioni di una vita sana e soddisfacente.
Vittore Giuseppe presto verrò a trovarti: via Luigi Pirandello, un Nobel, il nostro testimone.
Impiegare questo materiale per la creazione di opere d’arte è una prerogativa delle civiltà più remote: in Egitto i sarcofagi erano in legno pregiato, il cui esterno era dipinto in modo da rappresentare il ritratto di colui che era stato sepolto, come i mobili e altri oggetti di arredamento che potevano essere valutati come autonome opere di valore artistico. Anche i Romani e i Greci hanno sempre creato statue lignee, a volte di immagini votive, il cui compito era non soltanto decorativo, ma spesso rispondeva a reali esigenze di architettura e arredamento: esempio le porte delle chiese di Santa Sabina (Roma), di San Pietro nel sito archeologico di Alba Fucens (Aquila) e di Sant’Ambrogio (Milano).
Bisogna comunque approdare nel Rinascimento per annotare come artisti famosi in tutto il mondo avessero realizzato autentici capolavori in legno: Filippo Brunelleschi un magnifico “Crocifisso” che si può ammirare nella cappella Gondi di Santa Maria Novella in Firenze, un legno policromo di cm. 170x170; prima di lui aveva realizzato un “Crocifisso” Donatello, la cui opera si trova in Santa Croce in Firenze. Si racconta che Donatello, realizzata la sua opera, chiese un giudizio all’amico Filippo, il quale non manifestò entusiasmo per usare un eufemismo. Mesi dopo Brunelleschi invitò a pranzo Donatello e gli mostrò il “Crocifisso” che aveva realizzato in quel lasso di tempo: Donato di Niccolò di Betto Bardi non potette fare a meno di constatare l’assoluta perfezione ed armonia della scultura dell’amico: era pura ammirazione e non invidia. L’aneddoto è giunto a noi per opera di Giorgio Vasari (1511-1574) che lo cita nel suo lavoro “Vite de’ più eccellenti scultori, pittori e architetti” pubblicato in Firenze forse nel 1560; nel secolo scorso Pasquale Sorrenti a lui si è ispirato per il suo “Pittori, Scultori, Architetti e Artigiani pugliesi dall’antichità ai nostri giorni” (Levante Bari, 1990).
Sammichele di Bari, paese con una superficie che sfiora i 34,00 Kmq ed una popolazione di poco superiore a 6000 abitanti, è un comune grazioso e delizioso che dista una trentina di chilometri da Bari. E’ amministrato, per il secondo mandato consecutivo, da un sindaco cinquantenne che, nelle ultime votazioni, è stato riconfermato con il 78% delle preferenze: dichiarare quindi che il rag. Lorenzo Netti sia molto amato e stimato rientra in una pura constatazione di fatto reale. Secondo testimonianze archeologiche - avvalorate da menhir ancor oggi presenti - il territorio risalirebbe al periodo denominato “Età dei metalli” e più specificamente nell’Età del Rame, che storici qualificati hanno determinato in questo modo: Età del Rame (dal 5000 al 3000 a.C.), del Bronzo (dal 3000 al 1100 a.C.) e del Ferro (dal 1100 a.C. in avanti).
Nel XII secolo è esistita nella zona una località denominata Frassineto ricollocabile ad un casale (molte carte parlano di canale) di proprietà del barone Thomas de Fraxeneto; nel 1504 il facoltoso banchiere genovese Geronimo Centurione acquistò il castello - quello in cui ai nostri giorni si trova il Museo permanente della Civiltà Contadina ”Dino Bianco” - che con l’avvento del Conte Michele Vaaz, in un periodo che va dai primi anni del 1600 fino al 1675, riuscì ad avere intorno un borgo con un definito aspetto urbanistico in virtù di un accordo firmato in Napoli nel 1619.
L’agiato mercante ebreo portoghese Vaaz stipulò un atto per la fondazione di un borgo con due deputati della ‘Università del villaggio’ che erano Leonardo Netti, sindaco, e Giovanni Marinelli, i quali erano legittimati a dar vita alla nuova intesa da una procura del notaio Musella di Casamassima. In questo accordo gli abitanti si impegnavano, con i loro congiunti, a vivere e morire su questa terra e il Conte Vaaz, da parte sua, acconsentiva a fabbricare nuove case e a cedere della terra ai residenti in modo che la coltivassero a vigne, oliveti, mandorli ed altri frutti. Quando fu stilato l’atto di fondazione fu sancito che il villaggio dovesse chiamarsi “TerraNova”, ma sei anni dopo si decise per Casa-Vaaz. Chiaramente non era un nome ‘facile’ da mandare a memoria, ma qualcuno con ingegno contadino (fare con facilità ciò che è difficile agli altri) fece presente che ricorrere a ‘San Michele’ avrebbe fatto felice la Curia Romana, ma non avrebbe ferito l’amor proprio del Conte: da Casa-Vaaz si passò a Casale San Michele. Bellissima la storia con cui la comunità riuscì a ‘procurarsi’ un sacerdote e il sapere che nel 1632 la chiesa di San Michele non disponeva ancora di un altare consacrato e per celebrare le funzioni religiose si ricorreva ad altare portatile.
Per quanto riguarda il Castello, intorno cui si è andata ampliando la parte più antica del centro abitato, divenne proprietà del barone Da Ponte (possesso attestato da una vecchia iscrizione ancora oggi visibile su un arco d’ingresso del maniero), prima dell’arrivo del duca Caracciolo di Vietri nel 1860, la cui famiglia immediatamente diede vita ad una ristrutturazione totale, che è quella giunta a noi. Va ricordato che il progetto di restauro fu dell’architetto Ascanio Amenduni di Casamassima. L’Amministrazione Comunale di Sammichele nel 1971 acquistò il castello per preservarlo e assicurarlo anche alle future generazioni.
Il professore Filippo Boscia, in una delle prime domeniche di questo inizio anno, ha voluto salutare amici vecchi e nuovi con un incontro conviviale presso il rinomato ristorante Sant’Agata, prima di dirigersi, con i ‘pochi superstiti’, verso la bottega artigiana dello scultore Giuseppe Vittore.
Lo scultore di pezzi lignei Giuseppe Vittore deve molto al noto giornalista Franco Deramo - docente di Comunicazione aziendale nei laboratori del corso di laurea ‘Scienze della Comunicazione’ dell’Università degli studi Aldo Moro di Bari - che ha raccontato una storia bella, poetica e veritiera che riguarda il giovane artista Vittore e un ‘giovane’ fragno (Quercus trojana: albero della famiglia delle ‘fugacee’ sempreverde con delle foglie dalla forma appuntita, si trova solo in agro di Bari e Lecce ed in alcune zone della Basilicata) che cresceva ai bordi di un terreno che lo scultore aveva ereditato dal padre. Deramo, peraltro autore di validi libri di cui segnalo l’ultimo a me noto “Don Valerio Profezia e Servizio” pubblicato presso la casa editrice AGA di Alberobello, ci rivela che, a partire dal 2000, Vittore scolpì in un tronco, il fragno di cui sopra, una testa di un uomo… nello scorrere del tempo appellato San Pietro, dal nome della contrada in cui l’albero era nato.
Chiaramente l’immagine con il trascorrere dei mesi e degli anni veniva ‘modificata’ dalla corteccia del fragno che proseguiva la sua normale evoluzione, cambiando i connotati dell’effige scolpita. Questo processo lento, ma inesorabile, è stato testimoniato da una serie di scatti dell’artista della fotografia Michele Savino: a Sammichele ogni angolo di terra o strada ha visto la ‘luce’ attraverso i viaggi del cuore di questo maestro che fondeva passione e mestiere in ogni ‘click’. Bisogna arrivare a novembre 2018 per constatare come la natura avesse totalmente ‘assorbito’ quel piccolo capolavoro scolpito da Vittore, fino a farlo sparire (queste ultime testimonianze per immagine si devono all’abilita e disponibilità della fotografa Mariangela Martina).
Se vi è una lezione: la natura umana è sempre incompleta, mentre quella ‘divina’ recupera sempre il proprio stato naturale: non ci resta che dar ragione al filosofo Rousseau. “Lo spettacolo della natura ci consola di tutto” (francese, ma amante del ‘legno’).
Mi dicono che se si clicca in rete il nome del giornalista Deramo e quello dell’artista Vittore potrete leggere con più dovizia di particolari lo scritto dal titolo “Giuseppe Vittore: la ferita, la bellezza, il tempo. Almeno in questa vita chi scrive rinuncia alla… ‘rete’.
Il caro amico Filippo aveva stabilito che, dopo il convivio, saremmo tutti andati presso la bottega dell’uomo che fa ‘parlare il legno’ - in via Luigi Pirandello, 33 - per verificare de visu quanta ispirazione vi fosse in queste opere di puro ingegno… frutto di genio (in)compreso (come non pensare a quella frase del filosofo svizzero Henri- Frédéric Amiel: “Fare con facilità quello che risulta difficile agli altri: questo produce l’ingegno; fare ciò che è difficilissimo, se non impossibile, alle persone d’ingegno… questa la spiegazione del genio”).
Son dovuto rientrare per esigenze di nonno e mi sono privato di questa visita in una via che già dal nome invita a riflessioni: “Pensaci, Giacomino” non è solo un ‘velato’ consiglio, come “Liolà” non solo ‘smania’ ereditaria, ma pur non avendo “Il berretto a sonagli” si è ritenuto di dar vita a “La Giara” esclamando “Così è (se vi pare)”; terminato “Il gioco delle parti” si è concordato che il “Piacere dell’onestà” è imprescindibile nonostante “Questa sera si recita a soggetto”, “Ciascuno a suo modo”ed in attesa di quel “Uno, nessuno e centomila” è lecito convenire che quei “Sei personaggi in cerca d’autore”, che sono andati in visita a Vittore guidati da Filippo, non sono “I giganti della montagna”, ma semplici seguaci di quel “Lazzaro” di Betania che fece in modo che tutti comprendessero che “Il fu Mattia Pascal” era stato quasi costretto a vincere alla roulette di Montecarlo perché, lui che viveva in Liguria, poco sapeva di quel piccolo gioiello chiamato Sammichele, luogo in cui “I vecchi e i giovani” ignoravano l’esistenza di “Amori senza amore” e “Novelle per un anno” erano liete narrazioni di una vita sana e soddisfacente.
Vittore Giuseppe presto verrò a trovarti: via Luigi Pirandello, un Nobel, il nostro testimone.