Altamura. Prima del pane, fu l’anice

ROBERTO BERLOCO. ALTAMURA - Prima del pane, fu l’anice. Già, proprio così! Ed è una fonte attendibile a rivelarlo, vale a dire quella storia di Altamura a firma di Domenico Santoro, un avvocato altamurano che visse e operò in paese nella seconda parte del XVII secolo.

Spezia originaria dell’Oriente, l’anice verde, così detto nella sua variante comune più diffusa fin dall’antichità, era conosciuto da tutti i principali popoli del Mediterraneo di Età classica, utilizzato per dare sapore alle carni da cuocere, oppure come ingrediente per biscottati con funzioni peptiche. Accanto a questa, che è appunto la più nota nel Continente europeo (nella dizione scientifica “Pimpinella Anisum), vi sono altre due specie conosciute: l’anice stellato, detto anche badiana (Ilicium verum), tipico delle regioni asiatiche, e l’anice pepato (Zanthoxylum piperitum), anch’esso proprio dell’Oriente.

Bisogna pur specificare che, nelle pagine del cronista seicentesco, come viene fatto ampio cenno all’anice nel senso di specialità più abbondante e più apprezzata tra le produzioni tipiche locali, non avviene menzione alcuna del pane, o di qualunque altra derrata che possa chiamarlo in causa anche lontanamente. Segno chiaro che, per quanto godesse certamente di una presenza riconoscibile all’interno della cinta urbana, esso dovesse assolvere alla mera utilità di servire la tavola degli altamurani, senza che, da questi, sorgesse cruccio a renderlo famoso col commercio, oppure che si facesse famoso da sé attraverso l’entusiasmo dei forestieri che ne assaggiassero soggiornando in paese.

In tutta onestà, perfino andando avanti nel tempo, scavando tra gli scritti del canonico Vitangelo Frizzale, il quale si cimenta con la penna nel secolo successivo a quello di Santoro, manca qualsivoglia riferimento a quel prodotto da forno che contribuirà a fare le fortune economiche del centro federiciano durante l’epoca moderna. E così ancora andando avanti, prendendo ad esempio i testi del senatore Ottavio Serena e si è nel XIX secolo. Neppure uno straccio di ammicco, ma infine abbastanza per aver decisamente chiaro che l’idea commerciale del Pane di Altamura sia andata sviluppandosi da sé solo a partire dal Secondo Dopoguerra, fino ai risvolti delle ben note glorie contemporanee. Tanto non per far luce sopra un mito da sfatare, bensì appena per dar giusto respiro alla verità storica, perlomeno così come tramandata dalle uniche fonti d’epoca. 

D’altra parte, al pane si può associare un’analogia laddove si andasse a rapportare l’anice altamurano con la sua propensione all’esportazione anche ben oltre i confini di quello che era il Regno di Napoli. A spiegarlo, qualità e profusione di questo particolare frutto, tali da aprirsi varchi ovunque vi fossero piazze commerciali, all’interno e al di fuori della penisola italiana. Precisamente quanto è accaduto con il pane, sia pure assai dopo che “nacque” l’Italia, vale a dire dopo che questa “rinacque” in forma repubblicana.

Un altro punto di luce al quale non rinunziare è dato almeno dal chiedersi come potesse essere organizzata e presentarsi l’ampiezza dei coltivati in territorio altamurano. E’ del tutto intuitivo che, ai tempi del Santoro, questi dovessero avere una struttura differente da quella che, ad oggi, sia dato riconoscere.

Era una Murgia, quella compresa entro la giurisdizione del borgo, ancora intatta, difatti, da brame di spietramento e da moderne forme di inquinamento, ricca di aree boschive di cui oggi si può solo serbare il ricordo attraverso taluni residui sopravvissuti, idonea per colture a grano, orzo e legumi, allevamenti soprattutto bovini e ovini, giacimenti di acqua sorgiva e alberature di vario genere.

Era questa ricchezza a fare da sfondo ad una economia cittadina florida, una tale che, tra l’altro “ …. alle città maritime, dà copia d’anisi all’Istria e alla Dalmazia”. Eccolo qui il passaggio, laconico quanto esaustivo, con il quale il Santoro descrive il successo dell’anice altamurano. Ed è da questo che, letteralmente e per senso logico, si ricava l’idea dell’abbondanza prodotta entro l’agro del centro murgiano. Abbastanza da superare ampiamente il fabbisogno locale e da poter alimentare generosamente l’esportazione verso i porti commerciali di quella che, all’epoca, era ancora la Repubblica di Venezia. Gli stessi dai quali salpavano le navi merci della Serenissima destinate a raggiungere i principali attracchi europei, per far la fortuna delle classi mercantili veneziane e arricchire le Casse dello Stato adriatico per eccellenza.

Oggi, con buone probabilità di ragione, la gran parte della comunità ignora quale fosse una tra le produzioni che, maggiormente, con il proprio successo, davano motivo d’orgoglio di appartenere all’unica città, tra quelle dell’altopiano murgiano, resuscitata in forza di un atto d’imperio regale. L’unica che, un tempo, ospitò ricche distese di quel verde che è la tinta dell’anice, ma pure il colore della speranza, quasi alla maniera di un preludio di ciò che sarebbe stato e che oggi è.


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