Conclave: la recensione
FREDERIC PASCALI - Quello di Robert Harris, Conclave, è un romanzo dotato del suo consueto piglio narrativo, carico di tensione e di dovizia di informazioni, senza mai risultare scontato o poco efficace. L’adattamento cinematografico diretto da Edward Berger, già premio Oscar con Niente di nuovo sul fronte occidentale, non mantiene le stesse qualità e, pur dispiegandosi con i canoni classici del thriller, non lesina una preponderante attitudine alla sintesi.
Un intendimento che, come tale, presta il fianco al balenarsi di un incedere, di trama e azione, claudicante, più volte trafitto dagli espedienti narrativi della sceneggiatura di Peter Straughan. La tensione del racconto indugia, oscilla, sbanda, si fa verbo, ma non prende mai il totale controllo della storia. Girata quasi interamente in interni, l’incipit è già nel cuore dell’intreccio, con l’avvenuto decesso del Pontefice e la pressante necessità di allestire un Conclave che da subito si preannuncia complicato.
Soggiogato da spinte estreme e dai veleni legati all’ultimo
giorno di vita dell’erede di San Pietro, il clima del momento solenne si
tinge dei colori più infidi e la responsabilità di gestire le diatribe e i
delicati meccanismi degli uomini di Chiesa diventa territorio di caccia per
gli incubi peggiori. Quelli di cui deve occuparsi il cardinale decano Thomas
Lawrence, deputato allo scomodo ruolo di garante della regolarità del
Conclave e protagonista principale della pellicola.
Tra i porporati l’apparenza gioca un ruolo non da poco, sia nella disputa tra il progressista Aldo Bellini e l’ultraconservatore Goffredo Tedesco che nelle ambizioni dell’americano Joe Tremblay e dell’africano Joshua Adenaya, fino a rendere conto alle grinze dell’inaspettato che, come buona consuetudine, si cela all’interno di ogni storia d’intrighi che si rispetti. La fotografia dell’eccellente Stephane Fontane, estremamente attinente al percorso narrativo e ai suoi punti di svolta, incide, ma non fino al punto di scacciare le remore attinenti al ritmo degli eventi, così come la bella, e ossessivamente ammaliante, colonna sonora di Volker Bertelmann.
Si applaudono Ralph Fiennes, l’interprete principale, Stanley Tucci, la Suor Agnes di Isabella Rossellini, Sergio Castellitto e molti degli altri attori, senza tuttavia mai smarrire la sensazione di inespresso di una storia che, anche nelle pieghe dei dialoghi, non sempre riesce a trovare le giuste cadenze di racconto.
Tra i porporati l’apparenza gioca un ruolo non da poco, sia nella disputa tra il progressista Aldo Bellini e l’ultraconservatore Goffredo Tedesco che nelle ambizioni dell’americano Joe Tremblay e dell’africano Joshua Adenaya, fino a rendere conto alle grinze dell’inaspettato che, come buona consuetudine, si cela all’interno di ogni storia d’intrighi che si rispetti. La fotografia dell’eccellente Stephane Fontane, estremamente attinente al percorso narrativo e ai suoi punti di svolta, incide, ma non fino al punto di scacciare le remore attinenti al ritmo degli eventi, così come la bella, e ossessivamente ammaliante, colonna sonora di Volker Bertelmann.
Si applaudono Ralph Fiennes, l’interprete principale, Stanley Tucci, la Suor Agnes di Isabella Rossellini, Sergio Castellitto e molti degli altri attori, senza tuttavia mai smarrire la sensazione di inespresso di una storia che, anche nelle pieghe dei dialoghi, non sempre riesce a trovare le giuste cadenze di racconto.