Sant’Antonio Abate protettore degli animali
VITTORIO POLITO - Il 17 gennaio, data fissa di inizio del Carnevale, si festeggia Sant’Antonio Abate, Sand’Andè per i baresi, fondatore del monachesimo orientale e perciò chiamato “padre dei monaci”. Il Santo, per seguire il consiglio di Gesù «Se vuoi essere perfetto, va', vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi» (Matteo 19- 21), si rifugiò in una zona deserta dell’Egitto tra antiche tombe abbandonate e successivamente sulle rive del Mar Rosso, dove visse per ottant’anni da eremita.
L’esperienza del deserto in senso reale o figurato, è ormai un metodo di vita ascetica, fatto di austerità, di sacrificio e di estrema solitudine: Sant’Antonio ne fu l’esempio più insigne e stimolante. Infatti, pur senza alcuna regola monastica, esercitò un grande influsso dapprima tra i suoi conterranei e poi in tutta la Chiesa.
A lui è associato il bastone a T, tau, 19ª lettera dell’alfabeto greco e un maiale. Cosa c’entra il maiale, che per i cristiani era simbolo del male? Secondo gli studiosi all’inizio si trattava di un cinghiale, attributo del dio celtico Lug, dio del gioco e della divinazione, venerato in Gallia a cui erano consacrati cinghiali e maiali. Gli stessi sacerdoti venivano chiamati Grandi Cinghiali Bianchi, mentre il dio Lug regnava anche sugli inferi. L’emblema del cinghiale appariva anche sugli stendardi e sugli elmi dei celti. In realtà il maiale rappresenta simbolicamente il maligno e le seduzioni che i piaceri della carne provocano.
Le leggende a carattere popolare vogliono Sant’Antonio Abate in lotta con il demonio, ovvero con il male, con le passioni umane, con il fuoco eterno. Il Santo divenne così il padrone del fuoco, custode dell’inferno, e per tali prerogative, guaritore dell’herpes zoster, una patologia detta “fuoco di S. Antonio”. I monaci Antoniani, infatti, consigliavano di «implorare il patrocinio del Santo e di cospargere le parti malate con il vino nel quale erano state immerse le sacre reliquie». In epoche successive si adoperò il grasso di maiale che, posto sull’immaginetta del Santo, veniva portato dai monaci all’ammalato e usato per guarire le ferite del “fuoco sacro”. In questo modo era completa la figura di Sant’Antonio Abate, padrone del fuoco, vittorioso sulle tentazioni del demonio, del male e protettore del maiale.
Per superare, invece, l’interpretazione negativa del maiale, presente nel pensiero ebraico e cristiano e comprendere l’abbinamento iconografico santo-maiale immondo, è utile conoscere alcuni avvenimenti storici e leggendari. Nel secolo XI, dopo la creazione dell’Ordine ospedaliero degli Antoniani, fu concesso ai monaci anche il diritto di allevare maiali che circolavano liberamente nelle città e nei luoghi ove sorgevano i loro conventi. Tale disposizione risultava necessaria dal momento che i maiali girando in villaggi e città provocavano numerosi danni, come avviene oggi con i cinghiali.
L’iconografia rappresenta il Santo con il bastone tipico degli eremiti, un maiale ai piedi, a simboleggiare il demonio, un campanello e la fiamma. E, proprio a causa del simbolo del maiale, il nostro Santo divenne in breve il protettore degli animali domestici, mentre la fiamma ricorda la sua capacità di guaritore dell’ergotismo (un particolare tipo d'intossicazione provocata dal consumo eccessivo di alcaloidi).
Fu così che Antonio Abate divenne il protettore degli animali ed una testimonianza di festeggiamento romano ce l’ha lasciata il poeta tedesco Goethe, che in un suo diario parla del 17 gennaio 1787, giorno sereno e tiepido dopo una notte che aveva gelato, nel quale poté assistere alla consacrazione degli animali domestici, con cavalli e muli infiocchettati e benedetti con copiose aspersioni d’acqua santa.
A Bari si festeggia con la benedizione degli animali che, da qualche lustro, si svolge nella città vecchia presso la Chiesa di S. Anna, in via Palazzo di Città.
Curiosità
In alcune località delle Marche la festa di Sant’Antonio Abate si festeggia anche con balli popolari, specie con il saltarello, accompagnato da corni e tamburi sino a tarda notte. Anche il fuoco è considerato parte integrante della festa. Secondo alcuni i riti attorno alla figura del Santo testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica e druidica. Una festa dunque di origini antiche finalizzata a sconfiggere il male e le malattie.
A Novoli, in Puglia, viene accesa “la Fòcara”, una pira alta 25 metri per 20 metri di diametro, ed eretta con migliaia di fascine di tralci di vite arrivate da tutta la regione. Sul Gargano, a San Marco in Lamis (FG), nel passato i bambini erano soliti scavare per terra con le mani alla ricerca di pezzi di carbone, mentre a Mattinata e Monte Sant’Angelo (FG) “usavasi mangiare pancotto con pane conservato a Natale”. A San Nicandro Garganico (FG), verso l’imbrunire si accendono i fuochi (falò), che saranno ripetuti la sera del 20 gennaio festa di San Sebastiano e il 3 febbraio, festa di San Biagio. Al termine della cerimonia ogni persona prende una pala di brace e la porta a casa in segno di devozione. La cenere sarà sparsa successivamente nei campi affinché siano preservati da qualsiasi intemperia e produrre molti raccolti. Queste ultime notizie sono riprese dal volume di Grazia Galante “La religiosità popolare di San Marco in Lamis – Li còse de Ddì” (Levante editori).