Bif&st, “A cavallo della tigre”: Francesca Comencini racconta i paradossi del quotidiano, tra ieri e oggi
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BARI - Nel contesto variegato degli anni Sessanta, tra boom economico, nouvelle vague e preludio ai rivoluzionari anni Settanta, il cinema italiano attraversava una fase di crisi. In questo scenario, nel 1961, "A cavallo della tigre" di Luigi Comencini rovesciava i valori morali più comuni. Il film, nonostante un insuccesso commerciale clamoroso che portò allo scioglimento della cooperativa Age-Scarpelli-Comencini-Monicelli, è oggi considerato un capolavoro di satira e paradosso. A raccontarlo, questa mattina, durante un incontro di Cinema al Teatro Petruzzelli nell’ambito del Bif&st 2025, è stata Francesca Comencini, regista e figlia del Maestro. L’evento è stato prodotto da Apulia Film Commission e diretto da Oscar Iarussi.
Il film, proiettato nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna, ha al centro un elemento fondamentale: il paradosso. "A cavallo della tigre" narra l’evasione di Giacinto Rossi, un detenuto che, paradossalmente, non vuole fuggire, poiché in prigione si sente al sicuro dai problemi della vita quotidiana. Corrotto dal bisogno di denaro, finirà per tradire il suo compagno di fuga, Tagliabue. Il film evidenzia il senso di spaesamento dei protagonisti, incapaci di muoversi in una società che accelera e li lascia indietro. Il tragico prevale sul comico, riflettendo i paradossi di una società descritta come "un labirinto di brutalità".
“Questa è una storia ottimista scritta da pessimisti. Ma, nonostante il suo carico di pessimismo, non è deprimente: è un pessimismo felice”, ha letto Francesca Comencini, riportando le parole del padre. “I personaggi hanno in comune qualcosa che li riscatta sempre: l’ingenuità. Sono dei cattivi amati dagli autori che li hanno inventati. È uno dei miei film preferiti per questo motivo”.
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Francesca Comencini ha poi discusso il valore politico del film: “Se è un film politico? No, perché per esserlo dovrebbe suscitare definitive condanne morali. Ma se creare e amare degli abbandonati, dei disperati, lo rende politico, allora sì, lo è.” La regista, con il suo lavoro in "Gomorra - La serie", ha ribaltato il pregiudizio secondo cui le registe donne non possano affrontare temi scomodi.
“La politica attraverso il cinema era molto comune nella generazione di mio padre,” ha continuato, “ma un film non si fa con le buone intenzioni, si fa con un buon racconto.” Ha poi espresso gratitudine al Bif&st per averle dato la possibilità di guardare al passato con la consapevolezza del presente, ribadendo l'importanza di ricordare “senza nostalgia”.
Il film, secondo Francesca Comencini, insegna a osservare mondi contraddittori senza pregiudizi, evidenziando la forte tensione etica della pellicola. Ha poi aperto un dibattito sulla democratizzazione del cinema, auspicando una maggiore accessibilità per i giovani e sfatando il mito che il cinema sia “un mestiere per privilegiati”.
A chi desidera intraprendere questa carriera, ha suggerito di evitare l’isolamento: “Create reti, condividete, confrontatevi. Il cinema è un lavoro collettivo.” Ha ricordato con affetto le riunioni di sceneggiatura nella sua casa d’infanzia, in cui suo padre e i suoi collaboratori inscenavano i dialoghi con entusiasmo e spirito di squadra.
Infine, rivolgendosi alle donne, ha esortato a far sentire la propria voce: “Siamo state parte della storia da sempre. Ora raccontiamola.”